Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Si suppone la conoscenza della Dottrina Cattolica in linea di massima. Qui si dà spazio al chiarimento di punti che rimanessero lacunosi per alcuni utenti.

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Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda Mari » ven dic 05, 2008 8:31 pm

Ciao a tutti,
Volevo fare due domande riguardo al Regno..

Da poco tempo, grazie agli studi e all’informazione che sto accumulando in questi mesi, mi sono convinta che tutti i cristiani sono uguali, cioè hanno lo stesso “premio”, lo stesso destino celeste, quindi tutti (quelli a cui Dio vorrà concedere la beatitudine e la gloria del Paradiso) andranno in cielo e la Scrittura dice che saranno Re e Sacerdoti.
Ora, leggendo la prima lettera ai Corinzi al cap.4 versetto 8 mi è sorta una domanda, il versetto dice:

“Già siete sazi, già siete diventati ricchi; senza di noi già siete diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi”.

Mi chiedo: su chi regneranno questi re se tutti sono destinati ad essere re??

E poi un’altra scrittura sempre di 1Corinzi:

1Corinzi 6,2-3: “O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se è da voi che verrà giudicato il mondo, siete dunque indegni di giudizi di minima importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di questa vita!

Chiedo: di quale mondo parla Paolo? Se per giudizio intende quello “finale” ci saranno anime giudicanti e anime da giudicare chiamate “mondo”? Se così fosse, non ci sarebbe una distinzione tra quelli che giudicano e i giudicati? E poi, quali angeli giudicheranno i santi? Forse quelli malvagi, i compagni di Satana per essere poi spediti per sempre alla dannazione eterna?

Non so se sono stata chiara nell’esporre queste miei quesiti, forse non mi sono espressa come avrei dovuto per farvi capire le mie perplessità, ma se è vero come è vero che conoscete così bene le dottrine della wts, forse avete capito meglio di come l’abbia scritto, quello che intendo chiedere..

Grazie sin d'ora a chi mi vorrà rispondere

Saluti, Mari
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » sab dic 06, 2008 1:47 am

Mi chiedo: su chi regneranno questi re se tutti sono destinati ad essere re??


Gesù ha detto che sono i re di questa terra che si fanno servire (e che quindi "regnano" nel senso usuale del termine), ma che i cristiani sono re che devono farsi umili e servire il proprio prossimo, secondo quella legge d'amore che lo Spirito fa scaturire dai loro cuori. Il regno dei beati non è fatto di gerarchie e di editti, ma di amore. Solo l'amore, ci dice Paolo nella 1 Corinzi (Cap. 13), alla fine rimarrà, quando Dio sarà tutto in tutti.
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda Mari » sab dic 06, 2008 6:01 pm

Non ho capito

Scusami,
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda francocoladarci » dom dic 07, 2008 3:06 pm

Cara Mari, ho letto il tuo post e la domanda a cui vorresti avere una risposta, io sarei felice di darti una risposta secondo la dottrina cattolica, purtroppo sono stato un TdG per molti anni, quindi mi ritengo la persona meno adatta a risponderti, ciò non esclude che possiamo fare un ragionamento in merito alla tua richiesta, nell’attesa di una risposta più competente ed esauriente.

Vediamo chi fa parte di un “Regale Sacerdozio una Razza Eletta”, l’apostolo Pietro lo dice chiaramente nella sua lettera, 1° Pietro 2; 9 “ Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa”.

L’uso del pronome “Voi” sta ad indicare che non tutti gli uomini sulla terra avevano questa caratteristica ma bensì solo ed esclusivamente i Cristiani, coloro che hanno riposto la loro fede in Cristo, nel suo sacrificio, nel suo sangue, che fecero dei suoi insegnamenti il loro stile di vita, a questi l’apostolo Pietro rivolse quelle parole.
In 1° Corinzi 6; 2,3 l’apostolo Paolo dice: “O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se è da voi che verrà giudicato il mondo, siete dunque indegni di giudizi di minima importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di questa vita!”.
Come possiamo notare ci sono due aspetti interessanti, da una parte S Pietro dice “ Voi siete una razza eletta”, mentre S Paolo afferma che “ Giudicheranno il mondo”.

Apriamo una parentesi sul “ Giudicheranno il mondo” chi è il mondo?, se non tutti coloro che non hanno conosciuto Dio ne Gesù Cristo, tutte queste persone abitanti in tutta la terra, non hanno avuto questa opportunità, persone la cui condotta rispecchiava la” legge scritta nei loro cuori”, manifestandole nella loro vita quotidiana, queste persone non potevano far parte del “ Sacerdozio Regale”, non hanno lavato la loro personalità nel sangue di Cristo, per cui dovevano attendere di essere purificati, affinché potessero essere dichiarati Santi, la “ Razza eletta il Regale Sacerdozio” erano preposti affinché queste persone potessero essere Giustificate e divenire a loro volta una razza eletta.

L’argomento meriterebbe una trattazione ancora più articolata, per ora cara Mari questo è il Mio pensiero, senza dubbio persone più qualificate potranno dare una risposta più completa. Ciao
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » dom dic 07, 2008 3:54 pm

Cara Mari, i cristiani sono re perché partecipano della regalità di Cristo, i cristiani sono “re” nel senso in cui questo termine va inteso per ciò che concerne il Regno di Dio. Ora, per comprendere che cosa la Chiesa ritiene che il Regno di Dio sia, ti riporto i nn. 105-282 del Catechismo degli Adulti CEI, La verità vi farà liberi. Scusa la prolissità, ma spero che questa lunga lettura possa contribuire a chiarirti le idee.

Capitolo 3
LA BUONA NOTIZIA

Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. (Mc 1,15)

[105] Gesù di Nàzaret annuncia l’intervento definitivo di Dio nella storia, come re e salvatore. La regalità divina si afferma senza clamore nel tessuto della vita ordinaria; si rivela come amore gratuito e misericordioso rivolto a tutti, specialmente agli oppressi e ai peccatori. Chi l’accoglie con umiltà e fede, fa esperienza della beatitudine già tra le angustie della vita presente; cammina con coraggio verso un futuro pieno di speranza.

1- LIETO ANNUNCIO
CCC, 541-542; 2816-2831

Viene il regno di Dio [106] Capita spesso di leggere o ascoltare una pagina dei Vangeli. Forse ricordiamo qualche parabola e qualche detto, che ci hanno profondamente colpito. Rischiamo però di non coglierne esattamente il significato e la portata, se non li collochiamo nella prospettiva originaria. È importante, allora, scoprire qual era l’obiettivo fondamentale di Gesù, qual era il tema centrale della sua predicazione.
[107] Gesù di Nàzaret non insegna una visione del mondo, ricavata dalla comune esperienza umana, un insieme di verità religiose e morali, frutto di riflessione particolarmente penetrante. Si presenta piuttosto come il messaggero di un avvenimento appena iniziato e in pieno svolgimento. Il suo, prima di essere un insegnamento, è un annuncio, un grido di gioia: viene il regno di Dio! Una semplice frase, collocata in apertura del vangelo di Marco, riassume tutta la sua predicazione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Questa è la buona notizia che Gesù ha da comunicare. Questa è la causa per cui vive, la ferma speranza che lo sostiene.
Messaggero e protagonista [108] I concetti, tra loro intimamente collegati, di vangelo e di regno di Dio, fanno riferimento ad alcuni oracoli del libro di Isaia, che prospettano un grandioso intervento di Dio a favore di Israele, un nuovo esodo. Dio si prenderà cura personalmente del suo popolo, come un pastore fa con il suo gregge. Lo libererà, lo risanerà, lo guiderà verso Gerusalemme. Un messaggero correrà avanti a portare la buona notizia, “messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”” (Is 52,7); messaggero “mandato a portare il lieto annunzio ai miseri... per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere” (Is 61,1.3).
[109] Sullo sfondo di queste profezie, Gesù afferma che la storia è arrivata alla svolta decisiva: la grande promessa comincia a realizzarsi. Dio viene per regnare in modo nuovo e definitivo. Viene per aprire un cammino sicuro verso la pienezza della vita e della pace. Il suo regno è da intendere soprattutto come sovranità, regalità, come una realtà misteriosa e dinamica, che si è fatta vicina, anzi è già in mezzo agli uomini e deve essere accolta con umiltà e fiducia.
[110] Gesù identifica se stesso con la figura del messaggero che annuncia l’inaugurazione del regno di Dio: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi” (Lc 4,21). Ma, oltre che messaggero, si considera anche protagonista del Regno: l’intervento di Dio si attua attraverso di lui. Egli è venuto a radunare le “pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15, 24), in modo da attirare anche le nazioni “dall’oriente e dall’occidente” (Mt 8,11). È venuto per dare inizio alla liberazione integrale dell’umanità, con le meraviglie tipiche del nuovo esodo: “I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,5).Incontrare il Maestro e vivere in comunione con lui significa fare un’esperienza privilegiata, superiore a quella di Giovanni Battista. I discepoli devono rendersi conto che stanno partecipando a un avvenimento di importanza unica, al vertice della storia: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non lo udirono” (Lc 10,23-24).
[111] Gesù è il messaggero e il protagonista del regno di Dio che viene nella storia. La sua predicazione si può riassumere in questo annuncio e appello: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15).

2 – SI COMPIONO LE ATTESE
CCC, 709-720; 763-764

Una aspirazione diffusa [112] Gesù non ha bisogno di spiegare a lungo in che cosa consista il regno di Dio che va annunciando: nel suo ambiente questa idea era già, per dir così, nell’aria, come fa intuire l’evangelista Luca con sobrie annotazioni: “il popolo era in attesa” (Lc 3,15); “credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro” (Lc 19,11). Tale aspettativa era maturata in Israele durante una secolare esperienza storica, a partire dall’esodo.
La regalità di Dio nell’Antico Testamento [113] Come un re vittorioso, Dio liberò e fece uscire dall’Egitto il popolo ebraico; gli fece dono della sua alleanza e della sua legge; gli procurò il possesso di una terra fertile, dove scorreva latte e miele. Il suo disegno era quello di costituire una comunità, governata dalla sua legge e depositaria delle sue promesse, dove fosse riconosciuta la sua sovranità: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,4-6).
[114] Israele vide nell’esodo dall’Egitto il fondamento e il simbolo di tutte le salvezze successive. Di generazione in generazione imparò a riconoscere la presenza di Dio nella propria storia e ad acclamarla nella liturgia con il grido gioioso: “Il Signore regna!” (Sal 96,10). Coltivò la speranza che in futuro la gloria del Signore avrebbe attirato verso Gerusalemme l’attenzione dei popoli e avrebbe diffuso la pace sulla terra. Arrivò invece un’altra sciagura nazionale, l’esilio a Babilonia, amaro frutto di una serie interminabile di ribellioni contro Dio e di ingiustizie contro il prossimo. Nell’ora della desolazione si levò la voce del profeta Ezechiele a confortare e incoraggiare: il Signore manifesterà ancora la santità e la potenza del suo nome; guiderà Israele personalmente e per mezzo di un nuovo David; lo radunerà, lo purificherà, gli darà il suo Spirito, perché possa osservare i comandamenti, lo risusciterà a nuova vita. Mentre l’esilio si protraeva, un altro grande profeta, che noi oggi siamo soliti chiamare il “secondo Isaia”, portò finalmente una buona notizia, un vangelo: Dio interverrà presto, come ai giorni dell’esodo, per liberare e risanare il suo popolo; si metterà alla sua testa come un re e lo ricondurrà attraverso il deserto fino a Gerusalemme. Ci fu il ritorno; ma il successo fu mediocre e provvisorio. Sopraggiunsero altre invasioni, altre amarezze e sventure. Tuttavia le delusioni, anziché far appassire la speranza dei credenti, la resero più audace: Dio verrà definitivamente a liberare i poveri e gli oppressi, a portare giustizia e pace; “Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome” (Zc 14,9); farà brillare la sua luce in Gerusalemme davanti a tutti i popoli; stabilirà il suo regno per sempre, affidandolo a un personaggio misterioso, “simile ad un figlio di uomo”, e “al popolo dei santi dell’Altissimo” (Dn 7,13.27).
L’ambiente contemporaneo [115] I contemporanei di Gesù ogni giorno levavano al Signore l’appassionata invocazione: “Sii presto re sopra di noi”. Tutti i gruppi e i movimenti religiosi del tempo, eccettuati forse i sadducei, si aspettavano a breve scadenza qualcosa di grande da parte di Dio a vantaggio di Israele. Ognuno poi si raffigurava a modo suo quello che Dio avrebbe fatto: i farisei e gli esseni pensavano a un trionfo della legge mosaica e si preparavano con l’osservanza scrupolosa e l’ascesi personale; gli zeloti e gran parte della gente comune miravano a una restaurazione politica contro il dominio di Roma; i circoli apocalittici erano protesi verso un rivolgimento di dimensioni cosmiche con cieli nuovi e terra nuova.
Il ministero di Giovanni Battista CCC, 523 [116] Tra le tante voci si distingueva, per il tono austero e minaccioso, quella di Giovanni Battista. Proclamava come imminente l’intervento decisivo di Dio nella storia di Israele; intimava di prepararsi ad accoglierlo con una pronta e seria conversione: “La scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco” (Lc 3,9). Quelli che si recavano da lui e si riconoscevano peccatori, li battezzava nel fiume Giordano. A tutti dava la testimonianza di una vita ascetica, di digiuno e di preghiera, insieme con i suoi discepoli.
La posizione di Gesù [117] Gesù si inserisce nel suo ambiente, inquieto e pieno di aspettative, con continuità e originalità. Il suo passaggio desta nella gente interesse, stupore, entusiasmo; a volte perfino un misterioso timore. Provoca in molti diffidenza, delusione, rifiuto e ostilità. Non lascia però indifferente nessuno.Il suo annuncio è che il regno di Dio non è più solo da attendere nel futuro; è in arrivo, anzi in qualche modo è già presente. Viene in modo assai concreto, a risanare tutti i rapporti dell’uomo: con Dio, con se stesso, con gli altri e con le cose. Vuole attuare una pace perfetta, che abbraccia tutto e tutti. Al suo confronto l’esodo dall’Egitto e il ritorno da Babilonia erano solo pallidi presagi. Tuttavia il Regno non comporta né il trionfo della legge mosaica, né la rivoluzione nazionale, né gli sconvolgimenti cosmici. Bisogna credere innanzitutto all’amore di Dio Padre, che si manifesta attraverso Gesù, e convertirsi dal peccato, che è la radice di tutti i mali.
Tempo di AvventoCCC, 524 [118] È sempre attuale, anche per noi oggi, la necessità di prepararsi ad accogliere il Regno, educando desideri e domande. Ogni anno, in particolare, la liturgia dell’Avvento ripropone l’attesa dell’Antico Testamento, culminante in Giovanni Battista, e ci offre la grazia che dispone all’incontro con Dio.
[119] Allo scopo di preparare la venuta del suo regno nel mondo, Dio ha riunito e ha educato pazientemente, con un cammino di secoli, un popolo, che potesse accoglierlo e manifestarlo a tutte le genti: il popolo di Israele. L’incontro con Dio rimane comunque carico di novità e di sorpresa.

3 - GIA’ E NON ANCORA
CCC, 760-769

Difficoltà a credere [120] Il regno di Dio, che Gesù annuncia e inaugura, desta interesse; ma rischia anche di lasciare sconcertati e delusi. Il Maestro se ne rende conto e afferma: “Beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,6).Perché questa difficoltà a credere, nonostante la lunga preparazione e la viva attesa? Deriva dalla mentalità dell’ambiente o dalla natura stessa del Regno? Riguarda anche noi? Sono domande da considerare con attenzione.
Il futuro [121] Secondo Gesù, il Regno si affermerà pienamente solo nel futuro: adesso comincia appena a realizzarsi. Bisogna ancora pregare con insistenza e invocare: “Venga il tuo regno” (Mt 6,10). Presto, entro la durata di una generazione, accadrà qualcosa di nuovo: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (Mc 9,1). Finalmente, al termine della storia, la gloria del Regno riempirà il mondo intero.
Il presente [122] D’altra parte il futuro è anticipato già nel presente. Nelle parole, nei gesti e nella persona di Gesù, il Padre comincia a manifestare la sua sovranità salvifica: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17,21); “Se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12,28).Il presente, umile e nascosto, contiene una meravigliosa virtualità, che si dispiegherà nel futuro. È come il seme che silenziosamente germoglia dalla terra e produce la spiga; come il minuscolo granello di senape che poi diventa un albero; come il modesto pugno di lievito che finisce per fermentare tutta la pasta.
[123] Il regno di Dio non si impone in modo clamoroso e spettacolare, come la gente immagina che debba succedere. Non viene in un istante. Non risolve magicamente tutti i problemi. Si propone piuttosto alla nostra cooperazione. Per sperimentarlo, bisogna accoglierlo attivamente, bisogna convertirsi. E, comunque, si tratta sempre di una esperienza germinale, destinata a compiersi perfettamente solo nell’eternità.
Il vissuto quotidiano [124] Il Regno è più semplice e umano di quanto gli uomini stessi si aspettino. Si nasconde nella normalità della vita quotidiana e addirittura nella debolezza, nell’apparente fallimento. Non a caso Gesù, per le sue parabole, prende lo spunto dall’esperienza comune di tutti i giorni: il seminatore che esce a seminare, gli operai che lavorano nella vigna, il lievito che la donna mette nella pasta, il figlio che scappa di casa, il pastore che smarrisce una pecora.
Le parabole CCC, 546 [125] Le parabole sono racconti simbolici, in cui il paragone fra due realtà viene elaborato in una narrazione. Si tratta di un genere letterario che aveva precedenti nell’Antico Testamento, come ad esempio la severa parabola con cui il profeta Natan indusse a conversione il re David; ma Gesù lo impiega in modo estremamente originale. Vi fa ricorso per lo più quando si rivolge a quelli che non fanno parte della cerchia dei discepoli: i notabili, le autorità, la folla dei curiosi. Narra con eleganza piccole storie verosimili, ambientandole nella vita ordinaria, quasi a insinuare che il Regno è già all’opera con la sua potenza nascosta. Ma ecco, nel bel mezzo della normalità, uscir fuori spesso l’imprevedibile, l’insolito, come ad esempio la paga data agli operai della vigna: uguale per tutti, malgrado il diverso lavoro. È la novità del Regno, il suo carattere di dono gratuito e incomparabile. Gesù fa appello all’esperienza delle persone. Invita a riflettere e a capire, a liberarsi dai pregiudizi. Il suo punto di vista si pone in contrasto con quello degli interlocutori. Ascoltando la parabola, costoro si trovano coinvolti dentro una dinamica conflittuale e sono costretti a scegliere, a schierarsi con lui o contro di lui. Anzi, la provocazione risulterebbe ancor più evidente, se conoscessimo le situazioni originarie concrete, in cui le parabole furono pronunciate. La loro forza comunque è ben superiore a quella di una generica esortazione moraleggiante.
[126] Il regno di Dio è presente e futuro, umile e nascosto; non sconvolge, ma valorizza la realtà quotidiana; sviluppa la sua efficacia silenziosamente, come un piccolo seme o un pugno di lievito; esige da noi il coraggio della fede e una paziente cooperazione.

4 - IL REGNO PER I POVERI
CCC, 544; 1716-1723; 2443-2449

Una proclamazione di felicità [127] Il regno di Dio non risolve i problemi e non cambia le situazioni come per incanto. Ci si può chiedere, allora, in che senso esso sia una buona notizia, quale felicità porti e a quali condizioni se ne possa fare l’esperienza. Senz’altro Gesù di Nàzaret intende fare un annuncio e un’offerta di felicità. Le beatitudini del Regno, riferite dagli evangelisti Matteo e Luca, non vogliono essere soltanto una promessa, ma una proclamazione. A motivo del futuro che comincia a venire, assicurano già nel presente gioia e bellezza di vita, come un anticipo. Però è paradossale che ne siano destinatari i poveri e i sofferenti. Perché proprio loro?
Dio difensore degli oppressi [128] Nella Bibbia troviamo delineata con tratti impressionanti la condizione dei poveri: duramente sfruttati nei lavori occasionali; derubati del bue, dell’asino e delle pecore; curvati dalle fatiche e dalle umiliazioni; si nutrono di erbe trovate nei campi e di qualche grappolo rimasto nelle vigne dopo la vendemmia; passano la notte nudi e indifesi dal freddo, bagnati di pioggia, quando non trovano neppure una grotta dove rifugiarsi. Più in generale però vengono considerati poveri tutti coloro che per la loro debolezza non riescono a far valere i propri diritti e quanti subiscono in un modo o nell’altro l’oppressione dei prepotenti.
[129] Secondo la Bibbia, un re è giusto quando si fa difensore dei poveri, degli orfani e delle vedove, di quanti non sono in grado di farsi rispettare. A maggior ragione, la giustizia regale di Dio si manifesta a favore degli oppressi: “Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, chi spera nel Signore suo Dio, creatore del cielo e della terra, del mare e di quanto contiene. Egli è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati. Il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi. Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione” (Sal 146,5-10).
Liberazione dalla sofferenza CdA, 712; 854-856 [130] Dando compimento all’attesa, Gesù annuncia che Dio, nella sua nuova e definitiva manifestazione, si mette a fianco degli oppressi, degli affamati, dei malati, degli afflitti, dei perseguitati e comincia a liberarli. Rendendo visibile con il suo comportamento l’agire stesso di Dio, il Maestro va incontro a ogni miseria spirituale e materiale. Nutre con la parola e con il pane le folle stanche e senza guida, disprezzate dai gruppi religiosi osservanti. Si commuove di fronte ai malati, che gli si accalcano intorno, e li guarisce. Avvicina varie categorie di emarginati, i bambini, le donne, i lebbrosi, i peccatori segnati a dito, come i pubblicani e le prostitute, i pagani. Tende la mano a chiunque è umiliato dal peccato, dalla sofferenza, dal disprezzo altrui. Non si limita a operare in prima persona. Coinvolge i discepoli nella sua missione a servizio del Regno; esige da tutti un serio impegno, mediante le opere di misericordia, per la liberazione, sia pure parziale e provvisoria, da ogni forma di male, fino a quando non verrà la gloria del compimento totale.
Beati gli ultimi [131] Gesù proclama beati gli ultimi della società, perché sono i primi destinatari del Regno. Proprio perché sono poveri e bisognosi, Dio nel suo amore gratuito e misericordioso va loro incontro e li chiama ad essere suoi figli, conferendo loro una dignità che nessuna circostanza esteriore può annullare o diminuire: né l’indigenza, né l’emarginazione, né la malattia, né l’insuccesso, né l’umiliazione, né la persecuzione, né alcun’altra avversità. Anzi, una situazione fallimentare può riuscire addirittura vantaggiosa. I poveri, i sofferenti e i peccatori sperimentano acutamente la loro debolezza. Sono disposti a lasciarsi salvare da Dio. Sono portati a misurare il valore della propria persona non dai beni esteriori, ma dall’amore che il Padre ha per loro. Così “passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Per farne però l’esperienza gioiosa, devono abbandonarsi al suo amore, con umiltà e fiducia, e quindi convertirsi. In tal caso possono essere beati perfino in mezzo alle tribolazioni.
La gioia di Gesù [132] Gesù stesso è povero e perseguitato, ma pieno di gioia; esulta nello Spirito Santo e loda il Padre. Gli basta essere amato come Figlio. È lieto di ricevere tutto dal Padre e di essere nulla senza di lui. La sua povertà non si riduce a una condizione esteriore; è innanzitutto un atteggiamento spirituale, è umiltà: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29).Egli vuole comunicare la sua gioia: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28); “La mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11); “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27). Gesù dona una felicità, che può coesistere anche con la sofferenza, qualora non sia possibile eliminarla; anzi rende piena di significato la stessa sofferenza. È necessario però condividere la sua comunione con il Padre, essere umili come lui, “poveri in spirito” (Mt 5,3), come egli si esprime. Il Regno è offerto a tutti, ma raggiunge effettivamente solo chi, riconoscendo la propria insufficienza e la precarietà dei beni terreni, attende la salvezza unicamente da Dio e, con la sua grazia, diventa giusto, mite e misericordioso con gli altri.
Le beatitudini CdA, 857-864 [133] Gli atteggiamenti per accogliere il Regno sono ben esplicitati nella redazione delle beatitudini fissata dall’evangelista Matteo. Rimandando alla lettura del testo, qui viene presentata una interpretazione in prospettiva catechistica: “Beati gli umili che confidano solo in Dio, perché ad essi è riservato il suo regno. Beati coloro che si affliggono per il male presente nel mondo e in loro stessi, perché Dio li consolerà. Beati i miti, coloro che sono accoglienti, cordiali, pazienti e rinunciano a imporsi agli altri con la forza, perché Dio concederà loro di conquistare il mondo. Beati quelli che desiderano ardentemente la volontà di Dio per sé e per gli altri, perché Dio li sazierà alla sua mensa. Beati i misericordiosi, che sanno perdonare e compiere opere di carità, perché Dio sarà misericordioso con loro. Beati i puri di cuore, che hanno una coscienza retta, perché Dio li ammetterà alla sua presenza nella liturgia celeste. Beati quelli che costruiscono una convivenza pacifica, giusta e fraterna, perché Dio li accoglierà come figli. Beati i perseguitati a motivo della nuova giustizia evangelica, perché Dio, re giusto, li salverà”.
Illusoria autosufficienza CCC, 2544-2547 [134] L’attenzione preferenziale agli ultimi non significa esclusione degli altri. Gesù frequenta anche i “ricchi” e i “giusti”, coloro che nella società sono in vista per il benessere materiale o per la devota osservanza della Legge. Verso di loro però usa generalmente un linguaggio severo, perché li vede soddisfatti di sé, chiusi verso Dio e senza misericordia per il prossimo.
CdA, 146; 1121 Questi ricchi ripongono nei beni materiali la sicurezza e lo scopo della vita, come il facoltoso proprietario terriero della parabola, che, dopo un abbondante raccolto, si illude di aver raggiunto una sistemazione felice e duratura. Il richiamo di Gesù è deciso: “Guai a voi, ricchi... Guai a voi che ora siete sazi... Guai a voi che ora ridete” (Lc 6,24-25); “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!... È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mc 10,23.25).
CdA, 812; 930 I giusti sono tali solo in apparenza, quando disprezzano “gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri” (Lc 18,11) e si presentano a Dio a testa alta, confidando nelle proprie opere buone, come il fariseo al tempio. Nessuno è giusto da sé; per questo Gesù dichiara: “Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2, 17). Dietro alle singole azioni disordinate, egli vede un profondo traviamento del cuore, da cui “provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt 15,19). Se anche fosse possibile eliminare qualche comportamento malvagio, non è possibile darsi un cuore nuovo. Bisogna riconoscere la propria impotenza a salvarsi da soli. Chi si gloria della propria giustizia, si esclude dalla misericordia di Dio. La falsa autosufficienza, quella materiale dei “ricchi” come quella morale dei “giusti”, è il peccato fondamentale, che impedisce di accogliere il regno di Dio come dono. È necessario farsi piccoli come bambini; assumere un atteggiamento umile, fiducioso, grato e obbediente; non certo rimanere passivi, perché la fede implica anche impegno e creatività morale, ma come risposta all’iniziativa di Dio, come energia nuova risvegliata dall’amore del Padre, che rende dolce il giogo e il carico leggero. Possiamo amare solo perché prima siamo stati amati. La nostra risposta, in definitiva, è accoglienza.
[135] Beati i poveri, perché Dio li ama, si impegna a liberarli dalla sofferenza e fin d’ora conferisce loro la dignità di suoi figli, che nessuna circostanza esteriore può compromettere. Chi vive consapevolmente la comunione filiale con Dio, fa esperienza di gioia anche in mezzo alle tribolazioni, come Gesù. È necessario però condividere l’atteggiamento del Maestro “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e vivere secondo lo spirito delle beatitudini .Confidare nella ricchezza, gloriarsi della propria giustizia, considerarsi autosufficienti: ecco ciò che impedisce di accogliere il regno di Dio, che è dono gratuito.
Trianello

Deus non deserit si non deseratur
Augustinus Hipponensis (De nat. et gr. 26, 29)
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » dom dic 07, 2008 3:54 pm

Capitolo 4
DONO DI LIBERTÀ E COMUNIONE

Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. (Mt 13,44)

[140] Il regno di Dio è vita nuova per l’uomo. Provoca la nostra conversione; ci libera da avidità, ambizioni, affetti disordinati, paure e pregiudizi; al seguito di Gesù ci introduce nella comunione con il Padre e con i fratelli.

1 – CONVERTITEVI E CREDETE
CCC, 541; 545; 1423; 1888

La nostra cooperazione CdA, 813 [141] In Gesù, Dio padre inaugura la sua nuova presenza nella storia e offre a noi la possibilità di entrare in un rapporto di comunione con lui. Il suo regno non ha un carattere spettacolare; ama nascondersi nella semplicità delle cose ordinarie. E tuttavia possiamo farne l’esperienza subito, se lo accogliamo liberamente e attivamente. Per avere un raccolto soddisfacente, non basta che il seminatore getti il seme con abbondanza; occorre che il terreno sia buono. Il Regno è interamente dono, ma ha bisogno della nostra cooperazione: la esige e la provoca nello stesso tempo. Dio non solo rispetta, ma suscita la libertà; non salva l’uomo dall’esterno, come fosse un oggetto, ma lo rigenera interiormente, e poi attraverso di lui rinnova la società e il mondo. La lieta notizia del regno di Dio che viene implica un appello: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). La nuova prossimità di Dio mediante Gesù rende possibile una radicale conversione.
Un nuovo modo di pensare e di agire [142] Convertirsi significa assumere un diverso modo di pensare e di agire, mettendo Dio e la sua volontà al primo posto, pronti all’occorrenza a rinunciare a qualsiasi altra cosa, per quanto importante e cara possa essere. Significa liberarsi dagli idoli che ci siamo creati e che legano il cuore: benessere, prestigio sociale, affetti disordinati, pregiudizi culturali e religiosi.La decisione deve essere netta, senza riserve: “Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te... E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te” (Mt 5,29.30). Tuttavia Gesù conosce la fragilità umana e sa essere paziente. Lo rivela narrando di un padrone, il quale aveva nel campo un magnifico albero, che da tre anni però non gli dava frutti; ordinò al contadino di tagliarlo; ma questi gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai” (Lc 13,8-9).
Una vita più bella CdA, 948 [143] Chi si converte, si apre alla comunione: ritrova l’armonia con Dio, con se stesso, con gli altri e con le cose; riscopre un bene originario, che in fondo da sempre attendeva. Zaccheo, capo degli esattori delle tasse a Gèrico, non aveva fatto altro che accumulare ricchezze, sfruttando la gente e procurandosi esecrazione da parte di tutti. Quando Gesù gli si mostra amico e va a cena da lui, comincia a vedere la vita con occhi nuovi: “Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8). Zaccheo deve rinunciare, almeno in parte, alle sue ricchezze; ma non si tratta di una perdita. Solo adesso, per la prima volta, è veramente contento, perché si sente rinascere come figlio di Dio e come fratello tra i fratelli. La bellezza e il fascino del regno di Dio consentono di compiere con gioia le rinunce e le fatiche più ardue. Il bracciante agricolo che è andato a lavorare a giornata e zappando ha scoperto un tesoro, corre a vendere tutti i suoi averi per acquistare il campo e quindi impadronirsi del tesoro; il mercante, che ha trovato una perla di grande valore, vende tutto quello che possiede per poterla comprare. Il discepolo, che ha preso su di sé il “giogo” di Gesù, lo porta agevolmente, come un “carico leggero” (Mt 11,29-30).Le rinunce, che Gesù chiede, sono in realtà una liberazione per crescere, per essere di più. Il sacrificio è via alla vera libertà, nella comunione con Dio e con gli altri. Chi riconosce Dio come Padre e fa la sua volontà, sperimenta subito il suo regno e riceve energie per una più alta moralità, per una storia diversa, personale e comunitaria, che ha come meta la vita eterna.
[144] Il regno di Dio viene come dono, ma chiede la nostra libera cooperazione; la buona notizia diventa per noi realtà vissuta, se accogliamo l’appello di Gesù: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15).Convertirsi significa assumere un nuovo modo di pensare e di agire; comporta anche rinunce, ma dischiude una vita più vera e più bella, di comunione con Dio e con gli altri.

2 – LIBERI DAGLI INTERESSI E DALLE PAURE
CCC, 2535-2540; 2544-2547

Liberi dalla schiavitù della ricchezza [145] La vicinanza di Dio dà il coraggio delle scelte radicali. Innanzitutto libera dalla bramosia di possedere. Gesù non è un asceta alla maniera di Giovanni Battista: “mangia e beve” (Mt 11,19), vive in mezzo alla gente, ha simpatia per il mondo. Però vive per il Padre, ancorato al suo amore, disponibile alla sua volontà. Per testimoniare la fiducia assoluta in lui e dedicarsi totalmente al suo regno, assume una vita povera e itinerante: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,58). Vuole che anche i discepoli vadano a portare la lieta notizia alleggeriti da ogni zavorra: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno” (Lc 9,3). Ammonisce la gente a non lasciarsi suggestionare dalla ricchezza: “Nessuno può servire a due padroni...: non potete servire a Dio e al denaro” (Mt 6,24).
CdA, 134; 1121 [146] La ricchezza diventa padrona, quando uno ripone in essa la misura del proprio valore e la sicurezza della vita: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni” (Lc 12,15).Si tratta di un pericolo molto concreto. Il giovane ricco non riesce a liberarsi dei suoi averi; volta le spalle a Gesù e se ne va triste. Il ricco della parabola è senza cuore verso Lazzaro, il mendicante affamato e coperto di piaghe; e i suoi cinque fratelli continuano a gozzovigliare spensierati, al punto che nemmeno un morto risuscitato potrebbe scuoterli. Le folle, che seguono Gesù, si aspettano da Dio facile abbondanza di beni materiali e, invece di accogliere nella fede lui e la sua volontà, lo strumentalizzano ai propri desideri e interessi.
CdA, 1122 [147] La preoccupazione del benessere va ridimensionata. Ci sono valori più importanti e decisivi che non il cibo e il vestito: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,26-33). Occorre certo seminare e mietere, filare e tessere, progettare e lavorare, ma senza ansia per il domani. Bisogna possedere senza essere posseduti, senza preferire il benessere alla solidarietà.Il vangelo comanda di distribuire e mettere in circolazione i propri beni: “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma” (Lc 12,33). Condanna il possesso egoistico, che non tiene conto delle necessità altrui. Non chiede però di vivere nella miseria. Valore assoluto è la fraternità, non la povertà materiale. Lo conferma l’esperienza della prima Chiesa a Gerusalemme, dove i credenti avevano “un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32), mettevano le loro cose in comune e così “nessuno tra loro era bisognoso” (At 4,34).
Liberi dalla sete del potere CCC, 2235-2236 [148] Oltre che dalla ricchezza, la vicinanza di Dio libera anche dalla tentazione di dominare sugli altri. Gesù è venuto non per essere servito, ma per servire; e di fatto, a differenza dei maestri religiosi del suo tempo che di solito si lasciano accudire dagli allievi nelle necessità quotidiane, si comporta come un servitore: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). I discepoli dovranno seguire il suo esempio e servirsi l’un l’altro, comportandosi tra loro come fratelli di pari dignità e riconoscendo sopra di sé l’unico Padre. L’autorità, nella comunità cristiana, dovrà essere esercitata come un servizio, e non come un dominio oppressivo alla maniera dei re delle nazioni, che sfruttano la gente e si fanno chiamare benefattori: “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10,44).
CdA, 1103 [149] Il regno di Dio non ha niente a che fare con uno stato teocratico: non impone il diritto e la giustizia con la forza; non si difende con le armi; non fa concorrenza ai regni di questo mondo. Tuttavia non rimane indifferente neppure nei loro confronti: li giudica e ne denuncia le pretese totalitarie. Si deve dare “a Cesare ciò che è di Cesare”, rispettando le autorità e osservando le leggi, perché hanno il compito di assicurare la pacifica convivenza e il progresso dei cittadini. Prima ancora però bisogna dare “a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17), mettendo la sua volontà e la dignità dell’uomo al di sopra delle istituzioni, rimuovendo ogni soggezione falsamente religiosa verso il potere politico.
Liberi negli affetti CdA, 1075-1077 [150] La liberazione dal possesso egoistico e dall’ambizione non è sufficiente. Il regno di Dio trasforma anche gli affetti familiari e li apre a valori più alti ed universali. Gesù, con la sua sottomissione a Maria e a Giuseppe, riconosce il valore della famiglia come luogo dei rapporti umani fondamentali, ordinati alla crescita delle persone; eppure non esita a dichiarare che la sua famiglia più vera è quella formata dai discepoli che compiono la volontà del Padre. Insegna la fedeltà irrevocabile all’amore coniugale, contro ogni tentazione di adulterio e di divorzio; ma ad alcuni chiede di lasciare famiglia e lavoro, senza indugiare oltre.
Liberi dall’angoscia CdA, 847-848 [151] Infine, il regno di Dio libera dalla paura di essere messi al bando dalla società e perfino dal timore di perdere la vita. Gesù, quando sente dire che Erode Antipa vuole ucciderlo, come ha già fatto con Giovanni Battista, non cambia strada: “Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada” (Lc 13,32-33).I discepoli sono chiamati a dar prova dello stesso coraggio. Non temano di essere anticonformisti e diversi dagli altri, di essere insultati e perseguitati; non si lascino sedurre dalla strada larga, dove cammina la maggioranza, o dai falsi maestri, che spacciano dottrine alla moda. Rinuncino all’idolatria del proprio io; mettano da parte le paure e gli interessi immediati, diano la loro vita e prendano la croce, come il condannato che esce dal tribunale e si avvia al luogo del supplizio, in mezzo alla folla che lo schernisce e lo maledice: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,34-35).
[152] Chi ha Dio come Padre non può sentirsi mai solo: “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri” (Lc 12,6-7). La sofferenza, anche quella umanamente più inquietante e difficile da accettare, acquista un alto valore e una misteriosa fecondità. Gesù lo afferma con due immagini delicate e suggestive: il chicco di grano cade in terra e muore, ma rinasce moltiplicato; la donna al momento del parto geme e grida, ma poi dimentica completamente il dolore per la gioia di avere un bambino. Chi aderisce a Cristo con fede viva e salda, non è più ossessionato dall’ansia di trovare sicurezze e piaceri, per sentirsi vivo; è disponibile al servizio degli altri; sperimenta personalmente che il Figlio di Dio è venuto a liberare “quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15).
[153] Accogliere il regno di Dio libera dal possesso egoistico, dal dominio sugli altri, dagli affetti disordinati e dalle paure.

3 – LIBERI DAL LEGALISMO
CCC, 574-582; 1961-1974

[154] Il regno di Dio è il regno della libertà o della legge? Gesù abolisce o irrigidisce le prescrizioni dell’Antico Testamento? In che senso perfeziona la Legge e la porta a compimento? Sono domande importanti per capire Gesù e la sua opera.
Centralità della Legge La Legge è essenziale nell’esperienza storico-religiosa di Israele. “Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date? tu risponderai a tuo figlio:... Il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi... così da essere sempre felici ed essere conservati in vita... La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato” (Dt 6,20-21.24-25).Al tempo di Gesù gli ebrei, per quanto divisi in vari movimenti e tendenze, sono tutti d’accordo sulla centralità della legge mosaica e del tempio. I farisei, più degli altri, urgono l’osservanza minuziosa delle regole in ogni settore della vita personale e sociale. Per loro le prescrizioni legali e la volontà di Dio sono senz’altro la stessa cosa e prendere su di sé il giogo della Legge è senz’altro prendere su di sé la sovranità di Dio. Contro il giovane rabbì venuto da Nàzaret sollevano frequenti controversie e lo accusano di disprezzare e violare la Legge.
Gesù perfeziona la Legge Cda, 897-900 [155] La posizione di Gesù è molto originale e non può essere affatto qualificata come permissivismo; anzi, per certi aspetti, è assai più esigente di qualsiasi altra: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Per accogliere il regno di Dio occorre una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei. Ben sei volte nel discorso della montagna ritorna la formula “Ma io vi dico”, per radicalizzare le prescrizioni della legge antica d’Israele e rivelare le esigenze di perfezione contenute nella volontà di Dio: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere... Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio” (Mt 5,21.22); “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,27); “Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio” (Mt 5,31-32); “Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare...; ma io vi dico: non giurate affatto... Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no” (Mt 5,33.34.37); “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,38-39); “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,43-45).Gesù condanna non solo l’omicidio e l’adulterio, ma anche l’atteggiamento interiore che sta alla loro radice; dichiara che il divorzio è fuori del progetto di Dio e ristabilisce l’indissolubilità del matrimonio; comanda la limpida veracità nel parlare e l’amore attivo verso i nemici, cercando di vincere il male con il bene. Tanto esigente, forte e autorevole è il suo insegnamento, da lasciare la gente sbalordita. Però, chi accoglie nella fede la paternità di Dio, rivelata da Gesù, non si trova davanti un ideale irrealizzabile, ma il dono di una nuova grandiosa possibilità: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).
Cda, 878 [156] Del resto, la sua severità non ha niente a che fare con il legalismo. Se è vero che egli non abolisce la legge antica, è anche vero che non si preoccupa di ripeterla con esattezza e chiaramente la modifica in qualche punto. Vuole piuttosto perfezionarla. Nelle sei antitesi del discorso della montagna, illustrate con riferimenti concreti alla vita quotidiana, offre alcune indicazioni esemplificative di questo perfezionamento. Il disegno della nuova giustizia, così tratteggiato, ha il volto della carità, che evita il male e fa il bene verso tutti, compresi i nemici. Urgenti per lui sono soltanto le implicazioni necessarie dell’amore; e la Legge va portata a perfezione risalendo al suo significato originario, al principio ispiratore che è l’amore stesso. Gesù riprende e concentra tutta la Legge nei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, tra loro intimamente congiunti: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,37-40). Le norme particolari sono più o meno importanti secondo che più o meno si avvicinano al cuore della Legge. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!” (Mt 23,23-24).Su alcune cose Gesù è estremamente severo, su altre è sorprendentemente libero, condiscendente. Ma non c’è in lui nessuna incoerenza: la volontà di Dio è il bene vero e concreto, non un sistema intangibile di regole astratte; le norme cessano di avere valore, quando non favoriscono più la crescita autentica dell’uomo. Colui che inasprisce la condanna dell’adulterio è lo stesso che rifiuta la pena di morte, prevista dalla legge, per la donna adultera; colui che, come un pio giudeo osservante, frequenta la sinagoga ogni sabato è lo stesso che non esita a trasgredire il riposo del sabato, senza tener conto delle sottili distinzioni casistiche, quando si tratta di curare e guarire i malati: “È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?” (Mc 3,4). Il criterio che segue è questo: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” (Mc 2,27).
Critico verso il formalismo religioso CdA, 878 [157] Nella stessa direzione vanno le “trasgressioni” della purità legale.Gesù prova compassione per il dolore e l’umiliazione che pesano sui lebbrosi; non solo li guarisce, ma, passando sopra alla prescrizione che li relega in uno stato di isolamento e di maledizione, si avvicina e li prende per mano, li conforta e li rimette in piedi: li ristabilisce nella loro dignità davanti a Dio e alla comunità. Contesta le esteriorità religiose, come le abluzioni prima dei pasti e la distinzione tra cibi puri e impuri, o alcune forme di digiuno. Niente è profano, se non le azioni cattive che provengono dal cuore malvagio: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo” (Mc 7,20). Viceversa, tutto diventa adorazione di Dio “in spirito e verità” (Gv 4,23), se è compiuto in obbedienza alla sua volontà.
[158] In questa prospettiva Gesù ridimensiona lo stesso culto incentrato sul tempio di Gerusalemme, simbolo dell’unità e dell’identità di Israele. Più volte all’anno, in occasione delle grandi feste, sale in pellegrinaggio alla città santa, con esemplare devozione. Eppure dice parole e compie gesti, che inequivocabilmente relativizzano il ruolo del tempio. Dichiara più necessario riconciliarsi con il fratello che non portare offerte sacrificali all’altare, rispettare i genitori che non consacrare doni votivi. Si ritiene esente dal dovere di pagare la tassa annuale al tempio. Considera se stesso più grande del tempio e si rende protagonista di un’azione simbolica, la cacciata dei venditori, con cui intende significare non tanto la purificazione, quanto il superamento del culto tradizionale. Infine preannuncia la distruzione dell’edificio stesso: “Non rimarrà qui pietra su pietra” (Mc 13,2).È facile capire perché a Gerusalemme tra i sacerdoti e i notabili della setta dei sadducei ci si metta in allarme e si cerchi di farlo morire. La loro ostilità va ad aggiungersi a quella di una parte dei farisei, che lo incalza già dai primi giorni della predicazione in Galilea. Ai loro occhi Gesù di Nàzaret appare un falso profeta, perché non restaura, ma sovverte la religione tradizionale.
[159] La novità di Gesù è profonda. Lo riconosce lui stesso: “Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio... Né si mette vino nuovo in otri vecchi... Ma si versa vino nuovo in otri nuovi” (Mt 9,16-17). Tuttavia Gesù si trova in continuità con l’ispirazione fondamentale dei profeti e opera una liberazione che non ha niente a che fare con il permissivismo: egli responsabilizza al massimo nella concretezza e creatività dell’amore, per la totale fedeltà alla volontà di Dio e al bene dell’uomo.
[160] Gesù non abolisce la Legge, ma la perfeziona, riconducendola alle esigenze della carità, supremo principio ispiratore. Subordina all’autentico bene dell’uomo le regole della convivenza civile e contesta il formalismo religioso.

4 – LIBERATI PER ESSERE FRATELLI
CCC, 1825; 1932-1933;2196

Convivenza fraterna CdA, 850 [161] Se Gesù di Nàzaret dona e nello stesso tempo esige il distacco dalle ricchezze, dall’ambizione, dagli affetti disordinati, dai pregiudizi culturali e religiosi, lo fa in nome di una libertà che si attua nella comunione con i fratelli e con Dio. Quelli che si convertono al regno di Dio e obbediscono alla sua volontà, costituiscono una famiglia più salda che non la parentela fondata sui legami di sangue. Quanti tra loro sono chiamati a lasciare il lavoro, la casa e la condizione ordinaria di vita, non finiscono per rimanere soli, ma trovano una famiglia più grande, la comunità dei discepoli. Questa è la promessa di Gesù: “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna” (Mc 10,29-30).Neppure tra i seguaci di Gesù mancano egoismi e tensioni, ma la legge che regola i rapporti è quella della carità. Chi decide di seguirlo, sa che deve impegnarsi seriamente per una forma di vita, che prevede servizio scambievole, correzione fraterna, perdono, riconciliazione, attenzione ai più deboli.
Premura per tutti [162] Questo atteggiamento deve valere verso tutti, anche verso gli estranei: lo insegna con mirabile efficacia la parabola del samaritano. Un uomo viene aggredito dai briganti e lasciato mezzo morto lungo la strada. Lo vedono due passanti della sua stessa religione e nazionalità, ma tirano via senza curarsi di lui. Giunge un samaritano, uno straniero, per di più considerato eretico: si ferma, si avvicina, carica il ferito sulla cavalcatura, lo porta alla locanda, lo fa curare a proprie spese.È necessario farsi carico di ogni uomo che incontriamo, al di là di qualsiasi differenza razziale, sociale e religiosa. È sbagliato chiedersi chi sia prossimo a noi; siamo noi che dobbiamo farci prossimi di chiunque, anche di chi è estraneo, perfino dei nostri nemici. Il modello è l’amore stesso di Dio: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).
Amare concretamente CdA, 871 [163] Che cosa voglia dire amare, Gesù lo esemplifica nelle parole del giudizio finale: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36); e lo riassume formulando in termini positivi la cosiddetta “regola d’oro”: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti” (Mt 7,12).Amare, dunque, significa fare concretamente il bene, con premura e creatività. La misura è Gesù stesso: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34).
[164] I discepoli di Gesù vivono in comunione tra loro come fratelli e sono attivamente solidali con tutti, come il samaritano della parabola evangelica.

5 – PERCHE’ SIATE FIGLI DEL PADRE
CCC, 232-241; 260; 268-274; 1265; 1709; 1996-2005

Nuova rivelazione del Padre [165] L’esperienza di libertà e fraternità, che Gesù propone a quanti lo seguono, suppone un comune atteggiamento filiale verso Dio. Chi, per seguire Gesù, ha lasciato la propria famiglia, non ha più un padre terreno che provveda alle necessità quotidiane; ha trovato però un altro Padre, quello stesso di Gesù: “E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23,9). Egli è pieno di premura per i suoi figli. A lui possono abbandonarsi con totale fiducia e obbedienza, rese possibili dalla nuova rivelazione della sua paternità e vicinanza.
CdA, 293-294; 960 [166] Gesù si rivolge a Dio nella sua lingua, l’aramaico, chiamandolo abitualmente “Abbà” (Mc 14,36), che significa “papà”. “Abbà” è parola infantile, una delle primissime parole che il bambino impara a pronunciare: “Non appena egli sente il sapore della culla (cioè quando è divezzato), dice “abbà”, “immà” (papà, mamma)”, si legge nella tradizione ebraica. Anche divenuti adulti, i figli continuano a usare questa parola con atteggiamento di confidenza e di rispetto, in un clima affettuosamente familiare. Chiamare Dio familiarmente “papà”, come fa Gesù, appare cosa insolita e audace.
[167] Israele aveva sperimentato la premurosa bontà di Dio nei suoi confronti e l’aveva paragonata a quella di un padre per il proprio figlio: “Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio... Ad Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano... Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,1.3-4).Tuttavia, l’Antico Testamento accentuava l’infinita trascendenza di Dio, l’Unico, l’Eterno, il Santo, il Creatore del cielo e della terra: “Colui che ha fatto le Pleiadi e Orione, cambia il buio in chiarore del mattino e stende sul giorno l’oscurità della notte... Signore è il suo nome” (Am 5,8). Anzi i contemporanei di Gesù evitano il più possibile di pronunciare il nome di Dio e cercano di sostituirlo con modi di parlare che lo evocano senza nominarlo.
[168] Ma Gesù ha una esperienza unica di Dio; lo conosce ed è da lui conosciuto in una intimità reciproca assoluta; a lui si rivolge con commossa gratitudine e totale sottomissione, come il primo degli umili e dei poveri che sanno di ricevere tutto in dono. Ma proprio perché riceve la pienezza della vita di Dio, può parlare a lui con tono familiare e può parlare di lui con autorità: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,25-27).
Paternità universale CdA, 823-825 [169] Gesù sa di essere Figlio in senso unico; non si confonde mai con gli uomini nel suo rapporto verso Dio. Parlando con i discepoli, distingue accuratamente il “Padre mio” (Mt 7,21) da il “Padre vostro” (Mt 7,11), perché Dio non è per lui Padre allo stesso modo che per i discepoli. Eppure il regno di Dio, che in Gesù si manifesta, è la vicinanza misericordiosa e la paternità di Dio nei confronti di tutti gli uomini. Dio vuole essere “Abbà” anche nei nostri confronti; vuole che ci avviciniamo a lui con lo stesso atteggiamento filiale, la stessa libertà audace e fiducia sicura di Gesù. Lo comprenderà bene l’apostolo Paolo: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”” (Rm 8,15).Gesù da parte sua cerca in tutti i modi di risvegliare il sentimento vivo della paternità e della tenerezza di Dio. Gli uomini devono convincersi che sono amati dall’eternità e chiamati per nome; che non sono nati per caso, e non sono mai soli nella vita e nella morte. Possono non amare Dio, ma non possono impedire a lui di amarli per primo. Il figlio prodigo, nel suo folle capriccio, può volgere le spalle e fuggire di casa, per andare a sperperare i beni ricevuti; ma il Padre misericordioso aspetta con ansia il suo ritorno; gli corre incontro, lo abbraccia commosso e fa grande festa.
[170] Non è affatto semplice per l’uomo sentirsi intimamente amato da Dio. La superficialità, il disordine morale, i pregiudizi dell’ambiente, l’esperienza del male gli induriscono il cuore e gli accecano lo sguardo. Ma, se nella fede si apre alla vicinanza del Padre, l’uomo diventa un altro, con una diversa capacità di valutare, di agire, di soffrire e di amare. Sente di poter vivere il distacco dai beni materiali, la riconciliazione con i nemici, la fraternità con tutti. La conversione che il regno di Dio dona ed esige, coinvolge tutta l’esperienza e rivoluziona tutti i rapporti.
[171] Gesù vive un’intimità del tutto singolare con Dio e lo chiama familiarmente “Abbà” (Mc 14,36).Egli rende partecipi i credenti del suo rapporto filiale con il Padre, pieno di gratitudine, fiducia, sottomissione e gioia.

6 – PREGATE COSI’
CCC, 2599-2619

Gesù prega [172] Come si vive e si esprime il rapporto filiale con il Padre? Bastano l’obbedienza, il lavoro, la dedizione al prossimo? Oppure è necessario anche il dialogo della preghiera? Gesù prega, partecipando assiduamente alla liturgia di Israele. Invoca il Padre in pubblico, nel mezzo della sua stessa attività. Soprattutto si ritira lunghe ore in solitudine, nel deserto o sui monti, di notte o di buon mattino. La sua preghiera è stare di fronte al Padre come Figlio, in perfetta reciprocità, nella gioia dello Spirito Santo. Da questo intimo dialogo trae energia ed ispirazione per la sua missione, soprattutto nei momenti decisivi.
“Padre nostro” CdA, 1001-1012 [173] Il Maestro trasmette ai discepoli il suo atteggiamento filiale verso Dio. Insegna loro la preghiera del “Padre nostro”, come espressione della nuova comunione con Dio e segno distintivo della loro identità. La preghiera comprende sette domande nella redazione di Matteo e cinque in quella, forse più antica, di Luca; ma in realtà sotto diversi aspetti si chiede una sola cosa, l’unica necessaria: la venuta del regno di Dio in noi e nel mondo. È la preghiera dei figli, che fanno proprio il progetto del Padre e si abbandonano totalmente a lui; è la preghiera degli umili di cuore, protesi verso una salvezza più grande di quella che si può programmare e costruire con le proprie mani.
[174] Nelle parole del “Padre nostro” si può avvertire l’eco della preghiera ebraica, in cui si esprime l’anelito verso il futuro intervento di Dio: “Esaltato e santificato sia il suo grande nome, nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà; venga il suo regno durante la vostra vita...”. Ma la preghiera di Gesù si presenta come una proposta di fede nuova e originale. Qui di seguito ne viene offerta una parafrasi, utile per ritrovarne il senso originario:“ Padre nostro, che sei al di sopra di tutto come il cielo, fa’ che il tuo nome sia glorificato e riconosciuto santo. mostra davanti a tutti che tu solo sei Dio, radunando definitivamente il tuo popolo disperso e purificandolo dai suoi peccati con il dono del tuo Spirito. Venga in pienezza la tua regalità, che porta libertà, giustizia e pace. Si compia il tuo disegno di salvezza in cielo e in terra. Donaci fin d’ora il nostro pane futuro, un anticipo del convito del Regno; donaci il pane necessario per vivere oggi, come agli ebrei nel deserto davi la manna giorno per giorno: confidiamo in te e non vogliamo affannarci per il domani, per quello che mangeremo o per come ci vestiremo. Nella tua misericordia perdona i nostri peccati: anche noi siamo pronti a perdonare a chi ci ha fatto del male. Non lasciarci soccombere nella tentazione; fa’ che mai perdiamo la fiducia in te, così da non avvertire più la tua presenza e sentirci abbandonati. Liberaci dal potere del maligno, che si oppone al tuo regno e ci dà la morte”. Pregare il Padre ci fa sperimentare che siamo figli e ci sollecita a vivere da figli: “Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre... che ti ha redento per mezzo del Figlio e dì: Padre nostro!... Dì anche tu per grazia: Padre nostro, per meritare di essere suo figlio”.
[175] Gesù prega a lungo e con intensità; rende i discepoli partecipi della sua vita di Figlio e lascia loro in consegna la preghiera del “Padre nostro”.
Trianello

Deus non deserit si non deseratur
Augustinus Hipponensis (De nat. et gr. 26, 29)
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GrisAdmi
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » dom dic 07, 2008 3:56 pm

Capitolo 5
I SEGNI DEL REGNO

Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. (At 10,38)

[178] Il regno di Dio si rivela nell’agire di Gesù come potere benevolo e misericordioso, che libera dal dominio di Satana, opera guarigioni e conversioni, raduna definitivamente il suo popolo. Lodiamo il Signore, perché compie meraviglie, e rendiamoci disponibili perché possa compierle ancora attraverso di noi.

1. Il battesimo di Gesù e la tentazione nel deserto
CCC, 535-540
Solidale con i peccatori [179] Con il battesimo al fiume Giordano Gesù compie il suo primo gesto profetico pubblico e si rivela come Messia-Servo. Del battesimo di Gesù parlano tutti e quattro gli evangelisti, ma lo fanno quasi con disagio: si tratta del Figlio di Dio confuso tra la folla dei peccatori, che accorrono da Giovanni Battista per sottomettersi a un rito di penitenza. Il senso di questa scelta si lascia comunque intravedere abbastanza chiaramente nei loro racconti intessuti di immagini simboliche.
[180] Gesù è il Figlio amato del Padre; ma l’intimità divina, invece di separarlo, lo congiunge ai peccatori: Dio è vicino a chi si riconosce povero e bisognoso di essere salvato. Il Padre si compiace del suo Figlio e gli affida la missione di salvezza; gli comunica la potenza dello Spirito per attuarla.
CdA, 219 Gesù è il Messia, il Servo fedele del Signore, preannunciato da Isaia, che si fa carico dei peccati degli uomini, per ricondurli alla comunione con Dio. Rivelerà la vera natura del regno di Dio, il suo volto di misericordia, accogliendo i peccatori durante la vita pubblica e morendo in croce per loro. Alla luce dei successivi avvenimenti della Pasqua, l’immersione nel fiume Giordano appare quasi un preludio del supremo “battesimo” nelle acque della morte per i nostri peccati, mentre la prima pubblica presentazione come Messia preannuncia l’intronizzazione nella gloria della risurrezione. Come il nostro battesimo ci configura al mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo, così il suo battesimo lo anticipa.
Tentato come noi CdA, 381-382 [181] Il carattere proprio del regno di Dio e del messianismo di Gesù viene ribadito dal racconto della tentazione. Guidato dallo Spirito Santo, Gesù si reca nel deserto. Là lo attende Satana, il tenebroso “principe di questo mondo” (Gv 12,31), che gli prospetta una strategia trionfalistica, un falso messianismo fatto di miracoli clamorosi, come trasformare le pietre in pane, gettarsi dall’alto del tempio con la certezza di essere salvato, conquistare il dominio politico di tutte le nazioni. Gesù respinge decisamente la tentazione: no alla facile prosperità materiale, perché si deve cercare “prima il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33); no all’ambigua popolarità ottenuta con il miracolo spettacolare, perché non si deve strumentalizzare Dio ai propri bisogni di sicurezza; no all’ambizione del potere temporale, perché la vera liberazione dell’uomo nasce dal cuore. Il suo essere Figlio di Dio si manifesterà non nel possesso, nell’esibizione di potenza e nel dominio, ma nell’umile servizio, nel dono di sé, nella croce.
[182] Si tratta di una scelta decisamente controcorrente. Le proposte di Satana sono anche le aspettative dell’ambiente; corrispondono anzi a ciò che gli uomini di ogni tempo spontaneamente desiderano per realizzarsi. Il regno di Dio è diverso, apparentemente debole; ma “ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25).
[183] La tentazione è stata reale per Gesù: fu “provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (Eb 4,15). Anche più tardi sperimenterà la violenza della tentazione nell’ora della passione, quando sarà assalito dall’angoscia dell’uomo debole e solo di fronte alla morte, e sarà provocato a scendere dalla croce per esibire la propria potenza.Gesù si consegna alla misteriosa fedeltà del Padre e aderisce costantemente alla sua volontà, senza alcuna esitazione; vince Satana con la forza dello Spirito Santo; e ritrova l’armonia originaria con tutta la creazione, dagli angeli agli animali, come Adamo nel giardino paradisiaco.
Tempo di Quaresima [184] Il cristiano è chiamato a condividere la scelta fondamentale di Gesù. Con le promesse battesimali si impegna a respingere le medesime tentazioni del benessere, del successo e del dominio. La Chiesa glielo ricorda ogni anno con la celebrazione della Quaresima. È un cammino di essenzialità, in cui l’adesione a Dio scaturisce da scelte di sacrificio.
[185] Gesù si fa battezzare da Giovanni Battista, per affermare la sua solidarietà con i peccatori e assumere la missione di Messia-Servo. Respingendo la triplice tentazione della ricchezza, del successo e del dominio sugli altri, conferma la scelta di un messianismo basato sul servizio e sul dono di sé.

2. Contro il potere di Satana
CCC, 394; 550; 1673
Liberatore vittorioso CdA, 382-385 [186] Come la scelta iniziale, così tutto il servizio messianico di Gesù si sviluppa in conflitto con “l’impero delle tenebre” (Lc 22,53), fino all’ora decisiva della passione. Dove passa Gesù di Nàzaret, si manifesta una potenza di liberazione, di guarigione e di riconciliazione. Poveri e malati, peccatori e ossessi vengono sollevati con l’energia dello Spirito di Dio. Il dominio del nemico arretra inesorabilmente: “Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore” (Lc 10,18).“Il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo” (1Gv 3,8), perché gli uomini “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). La vittoria di Gesù e dei suoi discepoli sul peccato e la morte, sulla sofferenza, la malattia e il disordine della natura, è la vittoria del regno di Dio su quello del diavolo, perché, almeno indirettamente, le varie forme di male sono connesse al suo influsso nefasto.
Gli esorcismi di Gesù CdA, 386 [187] A volte la lotta di Gesù contro il male assume la forma di uno scontro diretto, di un esorcismo con l’ordine di lasciare liberi gli indemoniati. Come interpretare questi episodi? Alcune situazioni che i Vangeli, considerando il legame tra malattia e regno delle tenebre e seguendo la mentalità popolare del tempo, qualificano come possessione diabolica, possono essere ritenute normali malattie fisiche o psichiche, come sembra essere il caso della donna curva da diciotto anni, incapace di raddrizzarsi, che si riteneva “legata” da satana. Tuttavia ci sono anche episodi, come quello dell’uomo di Gerasa, che non rientrano negli schemi della patologia medica e presentano la fenomenologia tipica della possessione diabolica.
[188] Il servizio messianico di Gesù è una dura lotta contro tutte le potenze nemiche della vita per la piena liberazione dell’uomo.

3. I miracoli di Gesù
CCC, 547-550; 1503-1505
Segni di Dio [189] I miracoli annunciano e inaugurano il regno di Dio. C’è chi si chiede se abbia ancora senso parlare di miracoli, se essi siano oggi di aiuto alla fede o piuttosto di ostacolo, in quanto estranei alla mentalità scientifica dell’uomo moderno. È essenziale coglierne il significato.Nell’Antico Testamento gli eventi prodigiosi dell’esodo e in genere i miracoli compiuti da Dio e dai suoi inviati attestano la presenza salvifica del Signore nella storia del suo popolo. Nel Nuovo Testamento questi fatti straordinari sono chiamati “miracoli (opere potenti), prodigi e segni” (At 2,22): opere potenti, perché manifestano la potenza creatrice di Dio; prodigi, perché sono avvenimenti straordinari e inspiegabili, che destano l’ammirazione degli uomini; segni, perché nel contesto della predicazione evangelica trasmettono un preciso significato, la venuta del Regno. Dei tre termini il più adeguato è proprio l’ultimo. I miracoli sono gesti con cui Dio ci parla. Si rivolgono sempre alle persone, o perché le riguardano direttamente, come le guarigioni di malati, o almeno perché recano loro qualche beneficio materiale e spirituale, come accade nella moltiplicazione dei pani e in altre trasformazioni della natura. E per costituire il segno, non conta solo il fatto straordinario, ma anche il modo e il contesto in cui avviene.
Umiltà e autorità di Gesù CCC, 447 [190] Gesù di Nàzaret mostra il suo stile inconfondibile anche nel fare miracoli. Coerente con la sua missione di Messia-Servo, fermo nel respingere le tentazioni della ricchezza, del successo e del dominio, non si serve mai del miracolo per il proprio interesse personale, ad esempio per alleviare la propria fame, sete, stanchezza. Rifiuta le richieste di miracoli spettacolari, che costringano a credere. Proibisce ai malati, che ha risanato, di fare pubblicità. Rimprovera chi con il miracolo vorrebbe punire i recalcitranti e i ribelli, come talvolta era avvenuto nell’Antico Testamento. Si difende alla maniera dei deboli, nascondendosi davanti ai nemici. Non scende dalla croce, quando nell’ora suprema gli avversari lo sfidano con ingiuriosa ironia: “Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo” (Mc 15,31-32).Gesù come insegna con autorità, così compie i miracoli con autorità, a nome proprio: “Io ti dico” (Mc 5,41); “Ti ordino” (Mc 2,11). Agisce con naturalezza, senza sforzo e senza alcuna preparazione; gli basta una semplice parola. Il risultato è istantaneo, sebbene i casi siano diversissimi: guarigione di lebbrosi, ciechi, sordomuti, paralitici, epilettici; risurrezione di morti; moltiplicazione di pani e pesci, trasformazione dell’acqua in vino, una pesca miracolosa, una tempesta sedata. Alla singolarissima autorità si unisce una sorprendente umanità e tenerezza: a volte interviene senza essere richiesto, per compassione; a volte non esita a infrangere le prescrizioni della legge, guarendo in giorno di sabato o toccando i lebbrosi e i morti.
Significato dei miracoli CdA, 422-424 [191] I miracoli di Gesù sono strettamente collegati alla sua predicazione. È sempre in cammino, infaticabile, per città e villaggi della Galilea, “predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo” (Mt 4,23). Affida ai discepoli la stessa duplice missione: “Li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi” (Lc 9,2). Predicazione e miracoli attestano e attuano la nuova venuta salvifica di Dio nella storia. La sua parola converte; la sua parola risana. Il messaggio è centrato sul regno di Dio; i miracoli ne lasciano intravedere la presenza, ne sono i segni trasparenti. Il loro significato è molteplice. Dio si è fatto vicino in modo nuovo, per vincere il peccato, la malattia, la morte e ogni forma di male, per dare all’uomo la salvezza integrale, spirituale, corporea, sociale e cosmica, ora come in un anticipo e poi alla fine della storia in pienezza, facendo “nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Gesù è il Messia, “colui che deve venire” (Mt 11,3). Il popolo, davanti a questi gesti divini è chiamato a credere e convertirsi. La stessa riluttanza a compiere miracoli, che Gesù manifesta più volte, ha un suo significato. Egli vuole evitare che la gente strumentalizzi Dio ai propri interessi immediati. Per chi non cerca la comunione con Dio, ma unicamente i suoi benefici, il miracolo diventa fuorviante. Gesù esige almeno una fede iniziale, un’apertura al mistero. Alla folla curiosa e avida di prodigi si sottrae volentieri, appena capita l’occasione favorevole.
Storicità dei miracoli [192] Nella Chiesa delle origini i miracoli accompagnano normalmente la diffusione del vangelo e sostengono l’attività missionaria. Tuttavia non vengono sopravvalutati; rimangono in secondo piano rispetto alla vita nuova, alla santità. Gli stessi miracoli compiuti da Gesù durante la vita pubblica vengono narrati con sorprendente sobrietà. È un indizio di autenticità storica. Di indizi ve ne sono anche altri e molto solidi: le numerose sentenze evangeliche, assai antiche e attendibili, che menzionano l’attività taumaturgica di Gesù e il suo significato; le varie controversie con i farisei, che presuppongono guarigioni miracolose effettivamente compiute; le manifestazioni di entusiasmo da parte della gente, altrimenti inspiegabili; l’elevato numero di miracoli ricordati nei quattro Vangeli, globalmente nei sommari e distintamente in una trentina di episodi. Tutta la narrazione evangelica viene meno se si tolgono i racconti dei miracoli. Perfino una fonte ebraica menziona l’attività taumaturgica di Gesù, ricordando che fu giustiziato perché “ha praticato magia e ha sedotto Israele”.
Il miracolo e la scienza [193] Del resto, miracoli nel nome di Gesù avvengono nella storia della Chiesa fino ai nostri giorni, rendendo credibili quelli attribuiti a lui nella sua vita terrena. Molti nostri contemporanei ritengono che fatti del genere siano incompatibili con la conoscenza scientifica della natura. Al più sono disposti ad ammettere alcuni fenomeni eccezionali, come effetto di suggestione o di altre forze psichiche e fisiche ancora sconosciute. Una così radicale diffidenza non appare giustificata. Il mondo si presenta come un processo evolutivo, sempre aperto a molte possibilità, caratterizzato dalla continuità e nello stesso tempo dalla novità. In questa prospettiva è possibile concepire il miracolo come superamento creativo di una data situazione, per virtù divina, valorizzando le stesse cause naturali. Non dunque un sovvertimento, ma una ricomposizione dell’ordine delle cose, quasi un anticipo del compimento definitivo. Quanto alla suggestione, non è difficile rendersi conto che si tratta di una spiegazione insostenibile. Nessuna fiducia, per quanto grande, può causare guarigioni istantanee di gravi malattie organiche, come la lebbra, il cancro, le fratture ossee. Senza dire che a volte vengono guarite persone non coscienti o in coma, vengono risuscitati i morti, viene trasformata la natura inanimata. È sempre possibile ipotizzare l’intervento di forze sconosciute. Gli scienziati si limitano a constatare che il fatto prodigioso è scientificamente inspiegabile, oltre le costanti della nostra osservazione. L’interpretazione rimane aperta. Ma se l’evento straordinario avviene in un contesto religioso di serietà morale, di bontà, di umile fiducia in Dio, di preghiera, allora diventa un segno inequivocabile. Non per niente Gesù reagisce con indignazione quando gli scribi attribuiscono a Satana i suoi miracoli, che invece sono gesti evidenti di potenza benevola e misericordiosa, liberatrice e dispensatrice di vita.
Aiuto alla fede CdA, 156 [194] Essendo “segni certissimi della divina rivelazione”, i miracoli aiutano a credere in modo ragionevole. Lo suggerisce Gesù stesso: “Se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre” (Gv 10,38).Tuttavia non bastano certo i miracoli a produrre la fede: è l’attrazione interiore del Padre che la suscita. Né sono i miracoli gli eventi salvifici principali: il vero pane non è quello moltiplicato, ma quello eucaristico; la vera luce non è quella restituita al cieco nato, ma quella della fede battesimale. I sacramenti, prefigurati dai miracoli, sono una comunicazione di salvezza più alta.
[195] I miracoli, in quanto eventi straordinari, scientificamente inspiegabili, e situati in un contesto cristiano, sono segni della presenza salvifica di Dio nella storia, parte integrante della missione di Cristo e poi di quella della Chiesa.

4. La festa dei peccatori riconciliati
CCC, 545; 587-589
Vicino ai peccatori CdA, 701 [196] Il regno di Dio, più ancora che nei miracoli, si manifesta nel perdono concesso ai peccatori, nella loro rigenerazione come uomini nuovi, ricondotti alla comunione con il Padre e con i fratelli. L’annuncio dei profeti e l’esperienza della preghiera avevano maturato presso il popolo ebraico il senso del peccato e la certezza del perdono di Dio. Ora Gesù indica così il senso della sua missione: “Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10).Le persone devote si scandalizzano per il comportamento di Gesù; mormorano, protestano, dicono di lui: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11,19). In realtà Gesù è misericordioso, ma non accomodante. Esige conversione: “Va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,11); addita come norma la santità di Dio: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Se si intrattiene con i peccatori, lo fa perché sentano di essere amati da Dio, riconoscano il loro peccato, riprendano fiducia e imparino a loro volta ad amare: “”Simone, ho una cosa da dirti... Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?”. Simone rispose: “Suppongo quello a cui ha condonato di più”. Gli disse Gesù: “Hai giudicato bene”” (Lc 7,40-43).
Gesù rivela il Padre misericordioso [197] Gesù sa di essere in totale sintonia con la misericordia del Padre. Dio ama per primo, appassionatamente; va a cercare i peccatori e, quando si convertono, fa grande festa: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,4-6).L’unità di Gesù con il Padre è tale, che egli si attribuisce perfino il potere divino di rimettere i peccati, sebbene si levi intorno un mormorio di riprovazione e l’accusa di bestemmia: “Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua” (Mc 2,9-11).
Il convito del Regno CCC, 1439; 1443 CdA, 225 [198] Nella parabola del padre misericordioso, la gioia del padre per il figlio perduto e ritrovato si esprime in un banchetto. Anche Gesù, malgrado lo scandalo dei benpensanti, siede spesso a mensa con i peccatori: cena a casa di Levi e chiede l’ospitalità di Zaccheo. Da sempre nella cultura e nella religione ebraica il banchetto era l’espressione fondamentale dell’amicizia, della festa e della pace: un banchetto alla presenza di Dio aveva concluso l’antica alleanza; “un banchetto di grasse vivande” (Is 25,6) sarebbe stata la festa escatologica. Con il gesto di prendere parte ai conviti, Gesù intende celebrare la festa del Regno che viene nel mondo, come offerta di perdono, di amicizia e di gioia. È la festa della nuova alleanza tra Dio e il suo popolo, una festa di nozze, aperta a tutti gli uomini, nella quale però entrano solo coloro che riconoscono di aver bisogno della salvezza, i poveri, i peccatori e, più tardi, i pagani. È il trionfo della grazia e della misericordia. Desta sorpresa che Dio sia felice di ritrovare l’uomo, persino più felice di quanto lo è l’uomo di tornare a Dio.
[199] Gesù risana i malati, ma più ancora converte i peccatori e celebra con loro il convito festoso del Regno, rivelando l’amore misericordioso del Padre.

5. La comunità dei discepoli
CCC, 541-542; 551-553; 763-765; 858-860
Numerosi discepoli CdA, 536; 542 [200] Mentre introduce nella storia il Regno, Gesù avvia il raduno definitivo del popolo di Dio: le due cose vanno insieme, perché il Regno, secondo le profezie, si deve rendere visibile in un popolo. Il Maestro prova compassione per le folle, che vagano “come pecore senza pastore” (Mc 6,34), e per radunare Israele viaggia instancabile, predica e compie guarigioni. Ben presto riunisce una numerosa comunità di discepoli, come primizia e rappresentanza dei futuri credenti, come schiera di cooperatori per la raccolta della messe. Alcuni di essi aderiscono a lui rimanendo nelle proprie case e nella precedente condizione familiare e sociale, continuando il consueto lavoro: così Giuseppe di Arimatèa, Zaccheo di Gèrico, Lazzaro di Betània. Altri lasciano la famiglia, i beni, il lavoro, e lo seguono anche materialmente, formando un gruppo itinerante, in cui si fa esercizio quotidiano e concreto di comunione. Del gruppo, contro il costume tradizionale che le discrimina rigidamente, fanno parte anche alcune donne, che condividono l’esperienza della sequela e si rendono utili con l’assistenza domestica e il sostegno economico.
I dodici CdA, 512-513 [201] Un giorno, tra questi discepoli più vicini, Gesù ne sceglie dodici. Ci sono i quattro del lago: Simone, al quale impone il nome di Pietro, Giacomo e Giovanni di Zebedèo, Andrea fratello di Simone; e con loro ci sono anche Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananèo e infine Giuda Iscariota, il traditore. È una scelta di importanza fondamentale e, prima di farla, Gesù passa la notte in preghiera. È un’iniziativa tutta sua: “chiamò a sé quelli che egli volle” (Mc 3,13). Il numero è intenzionale: “Ne costituì Dodici” (Mc 3,14). Si tratta di un’azione profetica simbolica, con la quale il Maestro dichiara la sua intenzione di radunare le dodici tribù disperse, di convocare l’Israele degli ultimi tempi, aperto anche ai pagani. Li scelse perché “stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,14-15). Questo raduno e questo invio prefigurano la vocazione della Chiesa alla comunione e alla missione. Gesù mandò effettivamente i Dodici nelle città e nei villaggi, a proclamare il vangelo con la parola e con le opere; li mandò come suoi inviati ufficiali, a due a due secondo l’uso del tempo, con l’ordine di non esigere compensi, perché fossero segno dell’amore gratuito di Dio. “Partiti, predicavano che la gente si convertisse” (Mc 6,12) e guarivano molti malati. Al loro ritorno riferirono a Gesù “tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’“” (Mc 6,30-31). Questa prima missione, limitata al territorio di Israele, è preludio della missione definitiva verso tutte le genti, che il Signore affiderà loro dopo la sua risurrezione.
Una comunità come segno CdA, 426 [202] Gesù è profondamente legato alla comunità dei discepoli, composta da quelli che credono in lui e particolarmente da quelli che vanno anche materialmente con lui: la considera la sua vera famiglia; ne fa il segno pubblico del regno di Dio che comincia a venire; la chiama a manifestare in questo mondo la santità del Padre, con una vita di carità, conforme alla nuova giustizia prospettata nel discorso della montagna. Dovrà essere come una scorta di sale, pronta a dare sapore alla terra; come una città illuminata sul monte, che attrae con il suo fascino tutte le nazioni e le conduce a riconoscere Dio come Padre: “Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). L’orizzonte ultimo di Gesù e dei suoi discepoli è universale, sebbene l’orizzonte immediato resti circoscritto a Israele: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15,24); “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 10,5-6).
Comunità proiettata verso il futuro [203] Purtroppo, dopo un avvio promettente, il ministero di Gesù in mezzo al suo popolo va incontro a una crisi sempre più grave. Molti respingono l’invito al banchetto del Regno, con vari pretesti, come se la comunione con Dio avesse poco valore. Neppure le parole appassionate di rimprovero e di minaccia riescono a scuoterli. “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza... E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe!” (Mt 11,21.23); “Quelli di Nìnive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono alla predicazione di Giona. Ecco, ora qui c’è più di Giona! La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di Salomone!” (Mt 12,41-42).
CdA, 531 [204] Col passare del tempo, il Maestro, constatando la refrattarietà delle folle curiose e superficiali, se ne tiene sempre più in disparte, per dedicarsi prevalentemente alla formazione del gruppo dei discepoli. Vuole prepararli in vista del successivo sviluppo della sua opera, non certo farne una cerchia elitaria, a somiglianza dei farisei o degli esseni. Malgrado il momentaneo insuccesso, rimane pieno di fiducia nel futuro. Incoraggia i pochi che ancora lo seguono: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12,32). Garantisce che la comunità, da lui radunata, sarà solida per sempre “e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). Ne affiderà la guida a “Simone figlio di Giona” (Mt 16,17), al quale fin d’ora dà significativamente il nuovo nome di Pietro, che vuol dire “roccia”. Sarà lui il sostegno della futura costruzione. Intanto comincia a riconoscergli una certa preminenza tra i Dodici, come portavoce dei suoi compagni.
CCC, 669 CdA, 416-419 [205] Come si vede, la comunità dei discepoli è intimamente legata alla venuta del regno di Dio fin dall’inizio. Da essa, dopo la morte e risurrezione del Signore, si svilupperà la Chiesa, compimento di Israele, segno visibile e strumento della salvezza in mezzo a tutte le genti, germe e profezia della nuova umanità. Non si può aderire a Cristo, senza aderire anche alla Chiesa, parte essenziale del suo progetto. La sequela è possibile solo nella comunità.
[206] Gesù avvia il definitivo raduno del popolo di Dio, in cui rendere visibile il Regno: riunisce una comunità di discepoli, tra i quali sceglie i Dodici e li manda in missione; a uno di loro, Simone, cambia il nome in Pietro e promette di affidare in futuro il compito di guidare la comunità dei credenti.
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GrisAdmi
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » dom dic 07, 2008 3:56 pm

Capitolo 6
PER NOI OBBEDIENTE FINO ALLA MORTE DI CROCE

Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti. (Mc 10, 45)

[207] Affascinati dalla predicazione e dalle opere di Gesù, cominciamo a intuire l’identità misteriosa della sua persona. Al di là degli insegnamenti e delle singole azioni, quel che più conta è il dono totale di sé, maturato durante tutta la vita e portato a termine nella Pasqua. Attraverso l’esistenza terrena, la morte e la risurrezione, viene costituito per noi il Salvatore, che accogliendo e rivelando l’amore del Padre ci libera dal peccato e da ogni male. A lui ci accostiamo con fiducia e da lui impariamo a donare noi stessi nel servizio disinteressato.

1 – IL REGNO DI DIO E LA PERSONA DI GESU’
CCC, 520
Autorità e dedizione CdA, 262; 422; 424 [208] Lo scopo di Gesù è rivelare e attuare la presenza salvifica di Dio nella storia, il suo regno. Ciò avviene non soltanto attraverso le parole e le opere, ma anche e soprattutto attraverso il mistero della morte e risurrezione, che egli chiama la sua “ora” (Gv 2,4; 12,23; 17,1). Tra la venuta del regno di Dio e la vicenda personale del Maestro c’è una misteriosa compenetrazione: nel dono che egli fa di se stesso si manifesta il regno di Dio. Qual è il motivo di questo collegamento così stretto? Qual è il segreto della persona di Gesù?
[209] Esteriormente Gesù si presenta come un “rabbì”, un maestro della Legge, in quanto si circonda di discepoli e insegna. I discepoli però se li sceglie liberamente, come vuole; e nell’insegnare non commenta le Scritture come gli scribi, ma propone “una dottrina nuova” (Mc 1,27), con immediatezza e autorità; non usa neppure la formula dei profeti “oracolo di JHWH”, ma la sostituisce con un audace: “Io vi dico” (Mt 5,20), per di più in contrapposizione a: “Fu detto”, cioè fu detto da Dio (Mt 5,21); apre il discorso con un insolito: “Amen amen”, che significa “In verità, in verità vi dico” (Gv 1,51), per asserire che la sua parola è sicura e solida come la roccia. La stessa autorità egli esercita nel rimettere i peccati e nel celebrare il banchetto del Regno con i peccatori, verso i quali si mostra nello stesso tempo misericordioso ed esigente, oltre ogni “ragionevole” misura; e ancora la esercita nel compiere miracoli spontaneamente, a nome proprio. Pretende di essere decisivo per la salvezza: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30); “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,32-33).Esige di essere amato più dei genitori e dei figli e chiede che si lasci tutto per seguirlo. La sua persona, in definitiva, è più decisiva della sua dottrina e della sua azione.
[210] Autorità e pretese indubbiamente inaudite. D’altra parte Gesù vive poveramente, al punto che “non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Non impiega mai la sua potenza miracolosa per un vantaggio personale o per imporre il proprio progetto, a costo di deludere quanti si aspettano un Messia più efficiente. Servizio e dono di sé animano il suo insegnamento e la sua attività; presto troveranno l’espressione suprema nella sua morte e risurrezione. In Gesù autorità e servizio, misericordia e austerità si fondono in modo del tutto singolare. Sorgente di questa singolarità è l’esperienza di Dio come “Abbà”: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio” (Mt 11,27). Ha ricevuto tutto dal Padre e perciò è totalmente sottomesso a lui e nello stesso tempo a lui uguale nella maestà divina e nella capacità di amare.
Il Regno come amore [211] Gesù è una cosa sola con il Padre e ne impersona il regno. Nel servizio e nel dono di sé, non meno che nell’autorità, lo rivela, lo glorifica: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15,9). Il Padre è il primo ad amare, a donarsi, anzi è l’amore stesso; e il modo più appropriato di manifestarlo è amare, servire, dare se stesso. Ecco perché Gesù ha interpretato il suo messianismo come servizio fino alla morte in croce e alla risurrezione. Ecco perché il regno di Dio viene “con potenza” (Mc 9,1) nella sua Pasqua.
[212] Gesù rivela e attua nella storia la presenza salvifica di Dio-Amore, mediante il servizio e il dono di sé fino alla morte in croce e alla risurrezione.

2 -CHI E’ COSTUI
CCC, 439-440
Personaggio paradossale CdA, 78 [213] Gesù è un personaggio singolare e affascinante. Magnanimo e umile. Forte e mite. Totalmente libero e totalmente a servizio. Vicino al Dio santo e vicino all’uomo peccatore. Di viva intelligenza e squisita sensibilità. Elevato nel pensiero e semplice nell’esprimersi. Contemplativo e impegnato nell’azione. Profeticamente indignato verso i prepotenti e gli ipocriti e premuroso verso gli oppressi, i malati, i semplici e i bambini. Realistico nel valutare la fragilità e la malvagità umana e fiducioso nelle possibilità di conversione e di bene. Aperto all’amicizia e ai valori della vita e pronto ad accettare la solitudine e la morte. Soprattutto singolare, incomparabile nell’autorità e nel dono di sé.
Le opinioni della gente CdA, 79 [214] Già al suo tempo la gente, presa dallo stupore, si domandava: da dove gli viene questa autorità, questa potenza nell’operare e questa sapienza nel parlare? qual è la vera identità di quest’uomo? I discepoli stessi non finivano di meravigliarsi e si dicevano tra loro: “Chi è dunque costui?” (Mc 4,41).Presto “il suo nome era diventato famoso” (Mc 6,14) e in Galilea si affermava sempre più, nell’opinione popolare, l’idea che Gesù fosse un grande profeta taumaturgo; tant’è vero che, in occasione dell’ingresso solenne a Gerusalemme, ai cittadini che chiedono spiegazioni la folla dei pellegrini galilei risponderà: “Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea” (Mt 21,11).Per alcuni farisei era invece un falso profeta, posseduto da Satana, perché violava la legge e si intratteneva con i peccatori.
Riservatezza di Gesù CdA, 285 [215] Gesù, da parte sua, induce la gente a interrogarsi e lascia la domanda sempre aperta. Per non essere frainteso in senso politico nazionalista, evita di proclamarsi esplicitamente Messia, sebbene riceva pressioni in questo senso: “Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente” (Gv 10,24). Invece di rispondere, invita a riflettere sul carattere misterioso di questo personaggio da tutti atteso: “Come mai dicono gli scribi che il Messia è figlio di Davide?... Davide stesso lo chiama Signore: come dunque può essere suo figlio?” (Mc 12,35.37).
Intuizione di Pietro [216] Gli interessa relativamente quello che dice la gente; provoca piuttosto i suoi discepoli a pronunciarsi in prima persona: “E voi chi dite che io sia?” (Mc 8,29).A nome dei discepoli risponde Pietro: “Tu sei il Cristo”. Pietro intuisce che Gesù è il salvatore e liberatore definitivo che introduce il regno di Dio, colui che Israele attendeva da secoli in base alla profezia di Natan al re David: “Io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere... Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio... La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2Sam 7,12.14.16).Pietro intuisce, ma non comprende. Quando Gesù annuncia la propria morte, egli si ribella. Secondo la mentalità corrente ritiene che il Messia debba essere un trionfatore sulla scena di questo mondo; non sa proprio immaginarselo sconfitto e addirittura ucciso. Gesù lo rimprovera duramente: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33).
[217] Gli uomini avvertono il fascino di Gesù e si interrogano su di lui: è una ricerca decisiva, una domanda da porre con grande serietà e disponibilità a lasciarsi coinvolgere.

3 – MESSIA SERVO
CCC, 440; 536; 539; 555; 557; 601
Più che profeta [218] La personalità di Gesù, soprattutto l’autorità inaudita e il totale dono di sé, lasciano trasparire un profondo mistero. Viene spontaneo domandarsi se egli non abbia provato a definire la sua identità con qualche titolo o in riferimento a qualche figura dell’Antico Testamento. Gesù si pone senz’altro al di sopra dei profeti e dei sapienti: “Ecco, ora qui c’è più di Giona!... c’è più di Salomone!” (Mt 12,41-42). Del resto, se Giovanni Battista, l’ultimo e il più grande dei profeti, ha un ruolo inferiore al più piccolo di quanti appartengono alla nuova realtà del regno di Dio, incomparabilmente più elevata deve essere la posizione di colui che rende presente il Regno stesso. Tuttavia Gesù si situa nella linea dei profeti e non respinge la qualifica di “profeta”, con cui viene designato in ambienti popolari. Solo che, a differenza della gente, non mette l’accento sul potere di taumaturgo, ma sul destino di profeta rifiutato, perseguitato e martire, perché fedele a Dio e alla missione ricevuta: “Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto!” (Lc 13,33-34).
Servo CdA, 180 [219] Sulla strada verso Gerusalemme, la ricerca di potenza, di benessere e di prestigio dei discepoli si scontra ripetutamente con la logica di Gesù, secondo cui il Regno è servizio e in esso il primo è colui che serve. La discussione culmina con un’affermazione importante: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
CdA, 230; 231 Sullo sfondo affiora la misteriosa figura del Servo di JHWH, delineata dal libro di Isaia: figura di profeta inviato a Israele e a tutti i popoli, obbediente a Dio, umiliato e perseguitato a motivo della sua fedeltà. Egli è solidale con i peccatori e mite come un agnello condotto al macello; è “schiacciato per le nostre iniquità” (Is 53,5); porta il peccato di tutti e intercede per i malvagi; ma, “dopo il suo intimo tormento vedrà la luce”, “vivrà a lungo”, riceverà “in premio le moltitudini” e realizzerà il progetto del Signore (Is 53,10-12). In riferimento a questa figura, Gesù si presenta come Messia-Servo. Ciò apparirà ancor meglio nella celebrazione dell’ultima cena.
[220] Gesù si identifica con la figura profetica del Servo del Signore: “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).

4 – IL FIGLIO DELL’UOMO UMILIATO E GLORIOSO
CCC, 440; 649; 661
Titolo preferito [221] Per parlare di sé, Gesù preferiva usare il titolo di Figlio dell’uomo: lo si può arguire dal fatto che esso ricorre nei Vangeli ben ottantadue volte e sempre sulla sua bocca, come autodesignazione. Il riferimento è a un personaggio celeste del libro di Daniele, che appare “sulle nubi del cielo”, riceve da Dio “potere, gloria e regno” su “tutti i popoli, nazioni e lingue”, “un potere eterno, che non tramonta mai” (Dn 7,13-14).
Umiliato e glorioso [222] Denominandosi Figlio dell’uomo, Gesù si presenta come giudice e salvatore escatologico, che in futuro verrà nella gloria. Ma, innovando profondamente il significato di questa figura, dichiara che il Figlio dell’uomo esercita già ora il potere di giudicare e salvare; soprattutto aggiunge che egli adesso è umiliato e perseguitato. Questa tensione tra presente e futuro corrisponde alla dinamica del Regno, ora nascosto e avversato, in futuro glorioso. Il Figlio dell’uomo impersona il Regno. Dopo la sua morte e risurrezione, ricevuto il dono dello Spirito Santo, i discepoli lo capiranno meglio e potranno constatare la verità della sua parola: “Vi sono alcuni qui presenti che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (Mc 9,1).
La trasfigurazione CCC, 554-556 [223] Intanto a tre di loro, Pietro, Giacomo e Giovanni, il Maestro concede di pregustare un anticipo della sua gloria futura. Mentre si trova in preghiera “su un alto monte” (Mt 17,1), si trasfigura. Diviene sfolgorante come la luce. Con Mosè ed Elia, che nel frattempo sono apparsi, parla della necessità di passare attraverso la croce per entrare nella gloria. Mentre una nube luminosa avvolge i discepoli, risuona la voce del Padre, che lo proclama ancora Messia-Servo, come nel battesimo al fiume Giordano, ed esorta a seguirlo nel suo difficile cammino. Mentre discendono dal monte, Gesù ribadisce ai discepoli che “il Figlio dell’uomo dovrà soffrire” (Mt 17,12), come ha sofferto Giovanni Battista.
[224] Gesù è il Figlio dell’uomo, il salvatore che in futuro verrà nella gloria e ora subisce umiliazione e persecuzione.

5 – MINACCIE DI MORTE
CCC, 557; 587-591
Gli avversari [225] I Vangeli ci consentono di individuare con buona approssimazione la dinamica che portò alla crisi del ministero di Gesù. Il progetto del Regno, che si attua nella conversione incondizionata a Dio e all’uomo, appariva poco concreto alle folle: non rispondeva alle attese di riscatto nazionale e di benessere materiale. Dopo gli entusiasmi iniziali, esse cominciarono a diradarsi. Quanto alle autorità e agli appartenenti ai circoli elitari, sebbene tra loro ci fosse chi credeva in Gesù di nascosto, erano in genere sempre più ostili verso di lui e consideravano religiosamente deviante la sua attività, anche se egli frequentava le sinagoghe e il tempio, e si comportava ordinariamente come un giudeo devoto. Tra i farisei, la cui influenza nelle sinagoghe era predominante, non pochi erano in preda a crescente inquietudine e irritazione. Secondo costoro, Gesù sovvertiva la Legge, violava il sabato, praticava la magia con la forza del demonio per sviare il popolo. Per questi reati era prevista la pena di morte, mediante lapidazione. Sadducei e anziani, o notabili, che controllavano il sinedrio di Gerusalemme, suprema assemblea della nazione, erano sempre più allarmati per la sua contestazione del tempio: un falso profeta, che bestemmiasse contro la legge di Mosè e il tempio, meritava di morire. Per di più si trattava di un profeta pericoloso per la notevole popolarità di cui ancora godeva, come aveva dimostrato l’ingresso messianico a Gerusalemme. I devoti osservanti, a qualunque gruppo appartenessero, educati come erano al rispetto dell’assoluta trascendenza di Dio, facilmente rimanevano scandalizzati di fronte a un uomo che si attribuiva un’autorità pari a quella di Dio. Questi risentimenti presero corpo in un complotto contro Gesù e in una prima condanna da parte del sinedrio, mentre egli si teneva nascosto. Bisognava però arrestarlo senza dare nell’occhio, per non provocare tumulti tra la folla dei pellegrini galilei che lo consideravano un profeta. Giuda, con il suo tradimento, offrì la possibilità di arrestarlo a colpo sicuro.
La consapevolezza di Gesù [226] Da tempo Gesù si rendeva conto del rischio mortale. Ripetutamente aveva affermato che quanti si convertono al Regno vanno incontro a persecuzioni: a maggior ragione la stessa sorte sarebbe toccata a lui; tanto più che anche Giovanni Battista era stato ucciso, per ordine di Erode. Nei Vangeli troviamo numerose predizioni di Gesù riguardo a un suo futuro di sofferenza: alcune sono allusive; tre sono piuttosto dettagliate, rese probabilmente più esplicite dai discepoli alla luce degli eventi compiuti. Gesù dunque è consapevole del pericolo; ma gli va incontro con decisione: “Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore” (Mc 10,32). Il pericolo non indebolisce la sua fedeltà a Dio e non rallenta i suoi passi.
[227] L’ostilità contro Gesù fu alimentata da quanti, senza comprenderne le opere e l’insegnamento, lo considerarono un sovvertitore della religione e un pericoloso agitatore di folle. Gesù era consapevole della morte che lo attendeva, ma andò incontro ad essa con coraggio, per essere fedele a Dio.

6 - L’ULTIMA CENA
CCC, 610-611; 1323; 1333; 1337-1344
Festa del Regno che viene CdA, 198; 685 [228] Al sopraggiungere della pasqua ebraica, Gesù si mette a mensa con i Dodici, che rappresentano l’Israele degli ultimi tempi, e durante il banchetto manifesta il suo atteggiamento davanti alla morte imminente.
[229] Innanzitutto testimonia una certezza: il regno di Dio verrà comunque, il raduno di Israele proseguirà. La cena pasquale ebraica, memoriale della liberazione dall’Egitto e rendimento di grazie per le meraviglie compiute da Dio in occasione dell’esodo, aveva sempre più accentuato, con il passare dei secoli, il carattere di attesa della liberazione definitiva e della venuta del regno di Dio. Da parte sua, Gesù ha già celebrato più volte la festa del Regno con pubblici conviti; l’ha già presentata in una parabola come un banchetto, che rischia di fallire per il rifiuto degli invitati, ma poi ottiene uno splendido successo. Ora, di fronte alla incombente minaccia di morte, egli celebra il banchetto, nella ferma fiducia che il Regno sta venendo, nonostante l’apparente fallimento: “Da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio” (Lc 22,18). I Dodici sederanno ancora a mensa con lui; le dodici tribù si raccoglieranno nell’unità intorno a lui: neppure la morte potrà impedirgli di offrire commensalità e comunione ai suoi amici. Dio infatti “non è un Dio dei morti ma dei viventi!” (Mc 12,27) e non abbandona i giusti nella morte.
Dono di se stesso [230] Gesto di speranza è dunque l’ultima cena. Ma ancor più è gesto di autodonazione per la salvezza dell’umanità. Mentre mangiavano, Gesù “preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”” (Lc 22,19-20).
CdA, 219 Spezza il pane e versa il vino, come tra gli ebrei faceva qualsiasi padre di famiglia; ma con la sua parola trasforma il pane nel suo corpo “dato” e il vino nel suo sangue “versato”; trasforma questi elementi basilari del nutrimento dell’uomo nella sua stessa persona, che si dona per la salvezza degli uomini. Identificandosi con la figura del Servo di JHWH, si consegna alla morte per i Dodici e per il popolo da essi rappresentato; si offre perché il raduno di Israele si riapra, nonostante il rifiuto ostinato e omicida, e tutte le nazioni della terra siano chiamate alla salvezza. Per circa tre anni instancabilmente Gesù ha operato perché gli uomini riscoprissero Dio come Padre di tutti: dei poveri, dei discriminati, dei peccatori, dei nemici, di quelli che soffrono e di quelli che fanno soffrire. Per rivelare il volto misericordioso di lui, ha contestato il sistema religioso vigente e si è esposto alla morte. Ora fa della morte il compimento del suo servizio; va incontro ad essa in atteggiamento di solidarietà verso tutti, compresi i suoi persecutori; e così rimane fedele al suo Dio, compie la sua volontà e a lui si abbandona fiducioso, perché il Regno venga, come vittoria definitiva dell’amore e della vita, come nuova ed eterna alleanza, per Israele e per l’umanità intera.
CdA, 691-693; 697 [231] Durante la cena Gesù ha voluto anche lavare i piedi dei suoi discepoli, e ha detto “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27): un gesto e una parola che sintetizzano il senso della sua vita e della sua morte, come servizio a Dio a favore dell’umanità; un appello ai credenti perché seguano il suo esempio e diano testimonianza ogni giorno all’amore senza limiti con cui Dio ha amato il mondo. La cena viene ad essi consegnata come “memoriale”, ricordo e attualizzazione, nel rito, della sua dedizione: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). Dall’eucaristia, sacramento del suo sacrificio, riceveranno forza per fare di se stessi un dono al Padre e ai fratelli.
[232] Nell’ultima cena Gesù manifesta il suo atteggiamento davanti alla morte: ferma fiducia che il regno di Dio verrà in pienezza e consegna di se stesso per la salvezza di tutti.


7- LA PASSIONE
CCC, 593-598
Il processo [233] Giuda consegna Gesù alle autorità del tempio e accompagna al monte degli Ulivi, nell’orto del Getsemani, le guardie e i servi, mandati ad arrestarlo. Dopo l’arresto, nella notte stessa, viene avviato il processo con una istruttoria informale nella casa del sommo sacerdote. Intanto le guardie e i servi scherniscono Gesù come profeta da strapazzo: dopo averlo bendato, lo maltrattano con sputi, schiaffi e percosse. Al mattino seguente si riunisce il sinedrio e lo condanna a morte, quale falso profeta che sovverte la legge e il tempio, e come bestemmiatore che usurpa prerogative divine. Ma la sentenza non può essere eseguita senza l’approvazione dell’autorità romana; allora il sinedrio lo consegna in catene al governatore Ponzio Pilato, con la falsa accusa di essere un agitatore politico e un pretendente Messia in senso nazionalistico.
[234] Pilato odia gli ebrei e li tratta con arroganza. Svolge un supplemento di indagine e capisce subito che Gesù è politicamente innocuo per l’impero di Roma ed è rifiutato solo per motivi religiosi. Per liberarsi del fastidio, saputo che Gesù proviene dalla Galilea, lo manda da Erode, che ha il governo di quella regione, presente anche lui a Gerusalemme per la Pasqua. Erode lo prende per un fatuo sognatore e insieme alla corte lo schernisce come re da burla, facendogli indossare una lussuosa veste regale; e così mascherato lo rinvia al governatore. I capi ebraici, decisi a spuntarla, coinvolgono la folla e fanno leva sul servilismo di Pilato verso l’imperatore e sulle sue ambizioni di carriera. Per non avere noie con le autorità di Roma, Pilato finisce per cedere e consegna Gesù alla morte. La motivazione ufficiale, secondo la scritta da fissare sopra la croce, è: “Il re dei giudei” (Mc 15,26), cioè un ribelle politico.
La morte in croce [235] Secondo la prassi, Gesù viene crudelmente flagellato; quindi ancora schernito atrocemente dai soldati con la coronazione di spine. Viene condotto in un luogo appena fuori le mura della città, chiamato Gòlgota, e lì crocifisso. Muore di una morte dolorosa e umiliante, riservata ai criminali più pericolosi, messi al bando dalla società e considerati maledetti da Dio. Il suo cadavere non finisce nella fossa comune, solo perché alcuni amici, dopo averne coraggiosamente fatto richiesta al governatore, lo seppelliscono con onore in una tomba nuova.
[236] Gesù viene ingiustamente condannato a morte dal sinedrio, come falso profeta e bestemmiatore, e da Ponzio Pilato, come ribelle politico; viene flagellato, coronato di spine e crocifisso; muore nel dolore e nell’umiliazione, come uno scomunicato e un maledetto da Dio.

8 – L’ANGOSCIA E L’ABBANDONO
CCC, 612; 2605
Al Getsemani [237] Qual è lo stato d’animo di Gesù durante la passione? Al di là degli avvenimenti esteriori, c’è una passione interiore, ancor più dolorosa e misteriosa. Nel Getsemani Gesù è in agonia. Si getta bocconi a terra, si alza e va dai discepoli, torna a inginocchiarsi, supplica il Padre, prova un’angoscia tremenda, fino a sudare sangue. È orrore per la morte prematura e crudele, repulsione per l’odio e il peccato, amarezza per il rifiuto della sua opera. Chi ama soffre a motivo del suo amore; e nessuno ama più del Figlio di Dio. La solitudine lo opprime. È uomo come tutti e prova il bisogno umanissimo di essere confortato dagli amici; ma i discepoli dormono un sonno pesante, i loro occhi sono spenti: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?” (Mc 14,37).A prezzo di una sofferenza indicibile, Gesù riesce ad assoggettare la sua sensibilità umana alla volontà del Padre, che lo consegna alla morte indifeso: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Sul Calvario [238] Un altro spiraglio sulla passione interiore di Gesù si apre con il misterioso grido dall’alto della croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). È paradossale che faccia esperienza dell’assenza di Dio colui che ne ha proclamata l’assoluta vicinanza. Il grido è la citazione iniziale di un salmo, che esprime la desolazione del giusto perseguitato e insieme la sua fiducia in Dio. Alla luce del salmo, l’assenza di Dio, che Gesù sperimenta, va intesa come consegna nelle mani dei nemici. Ma l’abisso dell’abbandono è ancora più profondo.
[239] Gesù si fa solidale con gli uomini peccatori, fino a sentire come propria la loro separazione da Dio: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno” (Gal 3,13). Nel suo amore appassionato, sperimenta il peso dei nostri peccati e delle sofferenze che ne derivano: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21); “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1Pt 2,24).Alcune esperienze dei mistici ci aiutano a intuire, per analogia, quanto sia tremenda per Gesù l’esperienza dell’abbandono da parte del Padre: “Non c’è pena tanto grave per l’anima quanto il pensiero di essere stato abbandonato da Dio... L’anima prova molto al vivo l’ombra di morte e il gemito di morte e i dolori dell’inferno”; “Sono sprofondata in questa orribilissima tenebra, priva di Dio, dove pare sia venuta meno ogni speranza di bene... Dio mi è chiuso, del tutto nascosto, così che non posso ricordarlo, né ricordare il ricordo che ne ho avuto, né credere che sia lui a permettere ciò”.Gesù crocifisso, sebbene sperimenti l’abbandono di Dio, non cessa di abbandonarsi a lui con fiducia assoluta: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).
[240] Due preghiere, l’una nell’orto del Getsemani e l’altra sulla croce, sollevano il velo sulla passione interiore di Gesù, più dolorosa di quella esteriore: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!” (Mc 14,36); “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).

9- LA DISCESA AGLI INFERI
CCC, 631-635
Tra i morti [241] Secondo la fede della Chiesa, formulata nel “Credo apostolico”, Gesù, morendo, “discese agli inferi”. Cosa significa questa espressione piuttosto oscura? Gli inferi sono la dimora simbolica dei defunti. Al tempo di Gesù si riteneva che vi fossero sedi e condizioni diverse per i giusti e per i malvagi, mentre gli uni e gli altri attendevano la piena retribuzione nel giudizio finale.
Vittoria sulla morte [242] Gesù è andato tra i morti e poi è risorto dai morti. Ha raggiunto i morti come Salvatore; ha portato loro i benefici della sua morte redentrice: “È stata annunziata la buona novella anche ai morti” (1Pt 4,6). I giusti delle passate generazioni ottengono “la perfezione” (Eb 12,23) e vengono introdotti nel santuario celeste, al seguito di Cristo morto e risorto. Il senso di questa fede neotestamentaria si riassume in tre affermazioni: Gesù è veramente morto; la sua morte redentrice ha valore salvifico per tutti gli uomini, anche per quelli vissuti prima di lui; il suo incontro con i giusti già morti comunica loro la pienezza della comunione con Dio. In definitiva la discesa agli inferi, più che soggezione alla morte, è vittoria su di essa. L’icona del Sabato Santo rappresenta Cristo sfolgorante di luce, che abbatte le porte, spezza le catene, annuncia la liberazione, prende per mano Adamo e lo solleva, riconduce fuori i morti.
[243] Entrando nella morte, Gesù ha comunicato la pienezza della vita ai giusti che erano in attesa.


10 – IL MISTERO DELLA REDENZIONE
CCC, 599-618
Dio primo protagonista [244] Chi ha provocato la morte di Gesù? I suoi avversari storici soltanto? Oppure Dio ha fatto ricadere su di lui il castigo dovuto ai nostri peccati? Ha fondamento l’immagine di un Dio inflessibile, che soddisfa le esigenze della giustizia attraverso il sacrificio di un innocente? Addentrandoci in questi interrogativi ci accostiamo al significato della redenzione. Dal punto di vista storico, la morte di Gesù è stata voluta dalle autorità ebraiche e romane del tempo e dalla folla di Gerusalemme abilmente manipolata; non da tutti gli ebrei di allora; tanto meno da quelli delle generazioni successive. Ma le cause storiche non spiegano adeguatamente la croce di Cristo: ad un livello diverso tutti gli uomini ne sono responsabili. Quei pochi che, in varia misura, l’hanno provocata direttamente sono soltanto i rappresentanti del peccato, radicato in ogni uomo, in ogni popolo e in ogni epoca: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture” (1Cor 15,3).“Secondo le Scritture” significa: secondo il progetto di Dio adombrato nell’Antico Testamento. Dietro la morte di Gesù c’è dunque un disegno di Dio, un disegno di amore, che la fede della Chiesa chiama “mistero della redenzione”. Come l’antico Israele fu liberato dalla schiavitù d’Egitto per ricevere il dono dell’alleanza e della terra promessa, così l’umanità intera viene redenta, cioè liberata dalla schiavitù del peccato e introdotta nel regno di Dio. Sorprendendo ogni umana aspettativa, Dio si rivela nella debolezza e nella stoltezza della croce come amore senza misura; abbraccia mediante il Crocifisso coloro che sono lontani da lui; quindi finalizza la morte del suo Messia alla salvezza dei peccatori, mediante la gloriosa risurrezione.
Mistero d’amore [245] Il mistero della redenzione, secondo il Nuovo Testamento, è mistero di amore. Per avvicinarci ad esso il più possibile, nessuna prospettiva o linguaggio è più adatto di quello dell’amore gratuito. Dio è in sé perfettissimo, felice e immutabile: non può né diminuire né crescere, né perdere né acquistare. È per amore del tutto libero e gratuito che chiama in essere le creature e concede la sua alleanza. Non acquista nulla per sé; vuole solo comunicare vita e perfezione; ma lo vuole con assoluta serietà, appassionatamente.
[246] L’uomo, creato libero, si chiude con il peccato all’amore e ai doni di Dio. Danneggia se stesso, non Dio. A ognuno potrebbero essere rivolte le parole di Eliu nel libro di Giobbe: “Contempla il cielo e osserva, considera le nubi: sono più alte di te. Se pecchi, che gli fai? Se moltiplichi i tuoi delitti, che danno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano? Su un uomo come te ricade la tua malizia, su un figlio d’uomo la tua giustizia!” (Gb 35,5-8). E con il concilio Vaticano II si potrebbe aggiungere: “Il peccato è una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza”.Tuttavia il peccatore offende Dio e gli procura una misteriosa “sofferenza”, che, secondo la Bibbia, è amarezza e delusione, gelosia, ira e soprattutto compassione. Al di là degli evidenti antropomorfismi, dobbiamo pensare che Dio viene offeso nel suo amore di Creatore e di Padre, con cui liberamente si rivolge all’uomo e si lega a lui; viene offeso nel suo voler donare e si oppone attivamente con la sua volontà santificatrice alla miseria dell’uomo come fosse la propria, per vincere il male con il bene.
[247] Nel suo amore sempre fedele, nella sua misericordia senza limiti, “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Lo ha mandato, uomo tra gli uomini; gli ha ispirato e comunicato il suo amore misericordioso per i peccatori, lo ha consegnato nelle loro mani, donandolo incondizionatamente, nonostante il rifiuto ostinato e omicida. L’iniziativa è del Padre: “È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2Cor 5,19). È lui che ama per primo; è lui che per primo “soffre una passione d’amore”, “la passione dell’impassibile”; è lui che infonde nel Cristo la carità e suscita la sua mediazione redentrice, da cui derivano a noi tutti i benefici della salvezza. “Questo imperscrutabile e indicibile “dolore” di Padre” suscita “l’ammirabile economia dell’amore redentivo di Gesù Cristo”.
[248] Il Cristo accoglie liberamente l’iniziativa del Padre: “Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5,19). Condivide l’atteggiamento misericordioso del Padre, la sua volontà e il suo progetto: “Ha dato se stesso per i nostri peccati..., secondo la volontà di Dio e Padre nostro” (Gal 1,4). Si è donato agli uomini senza riserve, si è consegnato nelle loro mani, senza tirarsi indietro di fronte alla loro ostilità, prendendo su di sé il peso del loro peccato: “uno è morto per tutti” (2Cor 5,14). Così ha vissuto e testimoniato nella sua carne la fedeltà incondizionata di Dio all’umanità peccatrice. Questa è la sua obbedienza e la sua offerta sacrificale a Dio: “Ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2).
[249] Si è offerto “con uno Spirito eterno” (Eb 9,14). Come il fuoco consumava le vittime sacrificali degli antichi sacrifici rituali, così “lo Spirito Santo agì in modo speciale in questa assoluta autodonazione del Figlio dell’uomo, per trasformare la sofferenza in amore redentivo”. Lo Spirito Santo era la forza divina della carità che il Padre ispirava nel Figlio e il Figlio accoglieva, offrendosi per noi.
Il Crocifisso risorto, nostro Salvatore CdA, 274; 399; 401-404 [250] Dio, nella sua misericordia, non solo dona agli uomini peccatori il Figlio unigenito irrevocabilmente, fino alla morte in croce, ma lo risuscita a loro vantaggio, costituendolo loro “capo e salvatore” (At 5,31). Dopo aver reso Gesù solidale con noi fino alla morte, il Padre lo ricolma della sua compiacenza, lo glorifica con la risurrezione e lo costituisce principio di rigenerazione per tutti gli uomini con la potenza dello Spirito Santo: “È stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25).Nell’evento globale della morte e risurrezione di Cristo si attua il mistero della redenzione, in quanto viene preparato e “reso perfetto” (Eb 5,9) per il genere umano il Salvatore, incarnazione dell’amore misericordioso e potente del Padre. “Colui che è più forte di ogni cosa al mondo, è apparso immensamente debole... Egli si è abbassato per gli uomini facendosi uomo e noi siamo saliti su un uomo abbassatosi fino a terra. Egli si è rialzato e noi siamo stati elevati”.
[251] Dopo l’evento pasquale, attraverso il ministero della Chiesa, in virtù dello Spirito di Cristo, la salvezza raggiunge i singoli uomini. Così la vita nuova “viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione... Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro” (2Cor 5,18.20).I credenti, accogliendo la redenzione, diventano anche cooperatori della salvezza degli altri. Seguendo Cristo, sostenuti dalla sua grazia, abbracciano la croce, muoiono al proprio egoismo, ricevono la forza nuova dell’amore e la introducono nel tessuto sociale della famiglia umana.
[252] Dio Padre ha mandato il suo Figlio tra gli uomini, lo ha lasciato in balìa della loro violenza, lo ha reso solidale con i peccatori fino alla morte in croce, lo ha risuscitato come loro Salvatore: “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).Gesù Cristo, condividendo l’amore del Padre per noi peccatori, si è consegnato nelle nostre mani, si è donato senza riserve fino alla morte, ha portato il peso dei nostri peccati; quindi è risuscitato per comunicarci lo Spirito Santo e renderci giusti. Così ha manifestato l’amore misericordioso del Padre, lo ha glorificato.Lo Spirito Santo, amore del Padre e del Figlio, ha animato l’esistenza umana di Gesù, in modo che fosse un continuo dono di sé agli uomini, fino al vertice supremo della morte in croce e della risurrezione. Gli uomini, nella misura in cui sono peccatori, sono solidali con chi ha condannato e ucciso Gesù; ma possono convertirsi e diventare giusti, perché l’amore di Dio e di Cristo è più forte di ogni peccato.


11 – INTERPRETAZIONI RITUALI MORALI E GIURIDICHE
CCC, 599-618
Diversi linguaggi [253] “Guarda se trovi in me altro che amore”, sentì dirsi da Dio una grande mistica. La prospettiva dell’amore gratuito aiuta a capire correttamente altre forme di linguaggio, con cui la Chiesa ha interpretato fin dalle origini l’inesauribile ricchezza del mistero della croce: riscatto, sacrificio, espiazione, soddisfazione, merito.
Riscatto [254] “Riscatto” “a caro prezzo” (1Cor 6,20; 7,23) significa che l’opera della liberazione è stata onerosa per Cristo; non che egli abbia pagato il prezzo a Dio come a un creditore esoso. Anzi l’iniziativa parte proprio dall’amore di Dio ed è assolutamente gratuita, come la liberazione di Israele dall’Egitto.
Sacrificio [255] “Sacrificio” è la morte di Gesù in quanto porta a compimento “una volta per tutte” (Eb 7,27) il senso dei riti sacrificali dell’Antico Testamento: i sacrifici di alleanza, l’olocausto, l’oblazione, il sacrificio pacifico, quello di riparazione e quello di espiazione, soprattutto il sacrificio dell’agnello pasquale. Tali sacrifici convergono in definitiva verso un unico obiettivo: attuare la comunione dell’uomo con Dio, rendendolo partecipe della sua santità.
Espiazione [256] “Espiazione” è da intendere come purificazione, non come castigo sostitutivo. Cristo non è stato condannato da Dio al posto nostro, anche se ha sofferto al posto nostro e a vantaggio nostro. Dio lo ha consegnato, non condannato; lo ha fatto diventare “maledizione per noi” (Gal 3,13), ma non è stato lui a maledirlo. L’amore di Dio ha fatto di Cristo lo strumento di espiazione, cioè di purificazione dei nostri peccati, di riconciliazione dei peccatori e di restaurazione dell’alleanza. La croce del Redentore non ci esime dal portare la nostra. Al contrario ci risana e ci rimette in piedi, perché camminiamo sulle sue orme. Siamo chiamati, come lui, a servire gli altri, accettando fatiche, rinunce e sofferenze.
Soddisfazione [257] “Soddisfazione” vuol dire che la croce di Cristo ricostruisce l’ordine oggettivo del mondo e il suo giusto rapporto con Dio, riparando i danni causati dal peccato. Dio è soddisfatto nel suo amore creatore e santificatore, nel suo voler dare appassionato. È giusto con se stesso, perché egli è carità. La sua è una giustizia giustificante, che rende giusto chi non lo è e concretamente coincide con la sua misericordia. È lui stesso che suscita la mediazione e l’intercessione di Cristo, e subordina ad essa ogni suo altro dono.
Merito [258] “Merito” esprime il valore sommo davanti a Dio dell’offerta di sé, con cui il Cristo si dispone a ricevere dal Padre la gloriosa risurrezione e a diventare principio di vita nuova per i peccatori. In definitiva tutte le interpretazioni convergono nell’indicare la compiacenza del Padre per la dedizione del Cristo e la costituzione di lui risorto come unico Salvatore per tutti.
[259] Le forme di linguaggio, con cui nella tradizione cristiana è stato presentato il mistero della redenzione, vengono interpretate correttamente nella prospettiva dell’amore prioritario e gratuito del Padre; fuori di essa rischiano di essere fraintese.
Trianello

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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » dom dic 07, 2008 3:57 pm

Capitolo 7
RISORTO PER LA NOSTRA SALVEZZA

In lui morto è redenta la nostra morte, in lui risorto tutta la vita risorge.
(Messale Romano, Prefazio pasquale II)

[260] La storia di Gesù non finisce con la morte: numerosi segni manifestano che egli vive nella gloria della risurrezione, come Signore che dona lo Spirito. Per mezzo di lui anche noi risorgiamo a vita nuova; sperimentiamo la gioia di amare e di offrire noi stessi in sacrificio, la più limpida e duratura che ci sia.

1 – AL CENTRO DELLA FEDE
CCC, 638; 664; 668-672
La luce di Pasqua [261] La liturgia della veglia pasquale comincia con un rito suggestivo. La gente in chiesa attende al buio e in profondo silenzio; dal portale entra la fiamma del grande cero pasquale, simbolo del Cristo risorto; da quella fiamma si propagano tante fiammelle, man mano che i presenti accendono le loro candele; poi si accendono tutte le lampade; e in mezzo all’assemblea si leva il canto gioioso della risurrezione. La fede cristiana è luce accesa e alimentata dalla Pasqua di Cristo. “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4): questo è il vangelo che la Chiesa riceve, trasmette e mantiene fedelmente. Ci rendiamo conto che si tratta di un annuncio sconvolgente, che cambia la vita?Oggi molti sono affascinati da Gesù di Nàzaret, uomo libero, fedele a Dio e a se stesso fino alla morte, uomo per gli altri, profeta di un mondo più giusto e fraterno; ma non ammettono la sua risurrezione. Se così fosse, egli non sarebbe il Salvatore, ma soltanto un martire in più; la speranza umana resterebbe una povera speranza e la morte continuerebbe a dominare inesorabile. Senza la risurrezione, il Crocifisso non ci salva; e la Chiesa non ha più nulla da dire: “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14).D’altra parte il Risorto, senza la croce e la concretezza storica di Gesù, sarebbe soltanto un mito facilmente manipolabile, una sterile proiezione delle nostre aspirazioni.
Il regno di Dio in Cristo risorto CdA, 208; 211; 422; 424 [262] Con il Crocifisso risuscitato riparte la causa del regno di Dio. Ciò che in modo così promettente era iniziato durante la vita pubblica e poi sembrava annullato dalla morte in croce, ora viene ripreso con nuova e potente efficacia. Dio non finisce di stupire per il suo amore: restituisce agli uomini come Salvatore il proprio Figlio, che essi hanno rifiutato e ucciso. Mediante il Crocifisso risorto, egli si fa definitivamente vicino ai peccatori, ai poveri, ai malati, ai falliti della storia, ai morti inghiottiti dalla terra. Non c’è solitudine umana che non vada a raggiungere. Il regno di Dio ormai è esplicitamente impersonato in Gesù, “costituito Signore e Cristo” (At 2,36). Dio esercita la sua sovranità per mezzo di lui e “non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Il vangelo del Regno, che Gesù predicava, diventa il “vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1); nasce la fede cristiana come fede in Gesù Signore e in Dio che lo ha risuscitato dai morti.
[263] La fede cristiana ha la sua origine e il suo nucleo centrale nel mistero pasquale: “Cristo morì per i nostri peccati... ed è risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4), cioè secondo il disegno salvifico di Dio.

2 – SI E’ FATTO VEDERE
CCC, 639-644
Cambiamento dei discepoli [264] Gesù di Nàzaret fu crocifisso a Gerusalemme, fuori delle mura, come un malfattore, e fu sepolto nella tomba nuova messa a disposizione da un amico, Giuseppe di Arimatèa. La storia sembrava finita. I discepoli erano paralizzati dalla paura e dalla vergogna. Ma qualche settimana dopo eccoli in pubblico a proclamare, con coraggio e appassionata convinzione, che Gesù è vivo, è risuscitato, è stato innalzato alla destra di Dio come Messia e Signore dell’universo. Costituiscono la prima comunità cristiana, dove tutti sono “un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32). Si sentono da lui inviati a proseguire la sua missione; per lui rischiano la vita, affrontano persecuzioni e tribolazioni d’ogni genere. Sono uomini nuovi, quasi fossero risuscitati anche loro. Deve essere proprio accaduto qualcosa! I discepoli affermano con sicurezza che è stato Gesù stesso a trasformarli, non una loro riflessione, immaginazione o esaltazione emotiva: si è fatto vedere vivo e ha donato loro lo Spirito Santo. Si è imposto alla loro incredulità con un’iniziativa tutta sua, con una nuova chiamata.
Incontri pasquali [265] L’apostolo Paolo, verso l’anno 55, riassume l’annuncio pasquale della prima comunità cristiana con quattro verbi, che indicano avvenimenti reali, anche se non tutti controllabili allo stesso modo: “Cristo morì... fu sepolto... è risuscitato... apparve”; poi subito fa seguire un elenco di testimoni autorevoli, ai quali bisogna fare riferimento: “apparve a Cefa (Pietro) e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me” (1Cor 15,3-8).Si potrebbe obiettare: se Gesù davvero è risorto, perché non si è manifestato anche al sinedrio, a Ponzio Pilato, a tutto il popolo? Per incontrare Dio, bisogna prima cercarlo umilmente; non ha senso un miracolo per costringere a credere. Del resto Dio è sovranamente libero nelle sue decisioni: “Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (At 10,40-41).
[266] Gli incontri del Risorto con i suoi avvennero a Gerusalemme e in Galilea. Ma è impossibile per noi stabilirne la successione e le modalità. I racconti pasquali, riportati nei quattro Vangeli, presentano divergenze in numerosi dettagli. Questi dettagli a volte, più che ricordi, sembrano essere mezzi letterari per esprimere la concretezza o il significato dell’incontro. La struttura dei racconti è però costante: iniziativa del Risorto, che si fa vedere, viene, si avvicina, sta in mezzo, si manifesta; riconoscimento da parte dei discepoli, senza possibilità di equivocare con qualche spirito o fantasma; missione affidata agli apostoli, che fa della loro testimonianza il fondamento della Chiesa. L’insistenza sull’oggettività dell’esperienza è tale, che le apparizioni sono in realtà da considerare veri e propri incontri interpersonali concreti.
Il sepolcro vuoto [267] Questa oggettività trova riscontro e conferma nella scoperta del sepolcro vuoto: un fatto che a Gerusalemme doveva essere pubblicamente noto, altrimenti non sarebbe stato possibile proclamare che Gesù era risuscitato, senza essere subito ridotti al silenzio e coperti di ridicolo. Il sepolcro vuoto, sebbene da solo non possa provare la risurrezione, costituisce però un’apertura verso il mistero e un segno dell’identità del Risorto con il Crocifisso.
[268] Il sepolcro vuoto, le apparizioni del Risorto e la radicale conversione dei discepoli convergono nell’indicare la realtà obiettiva della risurrezione.

3 - IL MISTERO DELLA RISURREZIONE
CCC, 645-647
Avvenimento diverso CdA, 1213 [269] La risurrezione di Gesù può essere considerata un fatto storico? È questa una domanda importante per la fede. La risurrezione di Gesù si riflette nella storia con dei segni: il sepolcro vuoto, le apparizioni del Risorto, la conversione e la testimonianza dei discepoli, i miracoli e altre manifestazioni dello Spirito. Tuttavia si tratta di un avvenimento non osservabile direttamente come i normali fatti storici: un avvenimento reale senza dubbio, ma di ordine diverso. I Vangeli narrano le sue manifestazioni, ma non lo raccontano in se stesso, perché non può essere raccontato. Le sue modalità rimangono ignote. Con la risurrezione, Gesù non è tornato alla vita mortale di prima, come Lazzaro, la figlia di Giàiro o il figlio della vedova di Nain; è entrato in una dimensione superiore, ha raggiunto in Dio la condizione perfetta e definitiva di esistenza. Non è tornato indietro, ma è andato avanti e adesso non muore più. Il nostro linguaggio non può descriverlo come veramente è: i risorti sono “come angeli nei cieli” (Mc 12,25) e il loro corpo è un “corpo spirituale” (1Cor 15,44), trasfigurato secondo lo Spirito, vero ma diverso da quello terrestre, come la pianta è diversa dal seme.
Oggetto di fede [270] I discepoli, che hanno incontrato Gesù concretamente vivo, interpretano questa esperienza alla luce delle attese di salvezza dell’Antico Testamento e usano consapevolmente un linguaggio simbolico: lo presentano come risvegliato, rialzato in piedi, risorto, innalzato, intronizzato alla destra di Dio. Il mistero trascende la nostra comprensione e può essere affermato solo per fede, ragionevolmente però, a motivo dei segni.
[271] La risurrezione di Gesù si manifesta nella storia, ma in se stessa trascende la storia.

4 – COSTITUITO MESSIA E SALVATORE
CCC, 648-654; 659-664
L’Ascensione [272] Secondo il racconto di Luca negli Atti degli apostoli, al mattino di Pasqua seguono giorni colmi di stupore e di gioia per le apparizioni del Risorto. Poi un ultimo incontro. Sul monte degli Ulivi, davanti allo sguardo rapito dei discepoli, Gesù si solleva in alto verso il cielo, entra in una nuvola, simbolo della gloria di Dio, e scompare. L’ascensione visibile è segno della invisibile intronizzazione messianica del Risorto.
Nella gloria trinitaria CdA, 422 [273] Interpretando l’evento pasquale alla luce di alcuni testi dell’Antico Testamento, gli apostoli proclamano: Gesù è stato “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti” (Rm 1,4); “Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire... Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,32-33.36).Il Padre, donando a Gesù in modo nuovo lo Spirito Santo, lo chiama a sé e lo risuscita alla vita gloriosa; nello stesso tempo lo unisce più intimamente agli uomini e lo costituisce “capo e salvatore” (At 5,31), per rinnovare tutte le cose. Completa così la generazione di suo Figlio nel mondo in virtù dello Spirito, iniziata con il concepimento nel seno della Vergine Maria: “Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato” (At 13,33, citazione del Sal 2,7). Nella risurrezione si ha il compimento dell’incarnazione, l’intronizzazione del Messia, la definitiva effusione dello Spirito su di lui per la salvezza di tutti. Il Crocifisso risorto accoglie lo Spirito del Padre e lo comunica agli uomini come potenza di comunione, di guarigione e di risurrezione. “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11). Secondo una dinamica trinitaria, la sovranità del Padre sull’universo si realizza per mezzo di Gesù Messia e Signore nella forza dello Spirito.
Per la salvezza del mondo CdA, 250; 404 [274] La risurrezione non costituisce semplicemente un trionfo per Gesù, ma è causa della nostra salvezza: “È stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25). Ha ricevuto la potenza divina di dare la vita ed è diventato il capostipite della nuova umanità, il nuovo Adamo, che ci fa rinascere come figli di Dio e conduce il mondo alla sua perfezione. Egli regna con la forza dell’amore come Agnello immolato e come Servo obbediente: “Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo... facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,7-9). La sua mediazione salvifica, pur avendo molti aspetti, si riassume nella comunicazione dello Spirito Santo agli uomini, per renderli capaci di credere e di amare, unirli a sé e ricondurli al Padre.
[275] Gesù, con la risurrezione, giunge alla perfezione della sua umanità e assume in pienezza la funzione di Messia e Salvatore, comunicando agli uomini lo Spirito Santo, per santificarli e ricondurli al Padre.

5 – FONDAMENTO DELLA RISURREZIONE UNIVERSALE
CCC, 555; 989-996
Primizia dei risuscitati [276] La risurrezione di Gesù fonda la nostra fede nella risurrezione generale al termine della storia. I discepoli, come gran parte degli ebrei del tempo, aspettavano certamente la risurrezione dei morti. Ma Gesù risorto fu per loro un avvenimento imprevisto, carico di misteriosa novità, in quanto anticipazione di un evento atteso solo per gli ultimi giorni: “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (1Cor 15,20-22).L’offerta delle primizie, nel culto ebraico, significava la consacrazione a Dio di tutto il raccolto. Gesù di Nàzaret è risuscitato non come individuo isolato, ma come capo e rappresentante dell’umanità; è la primizia dei risorti e include virtualmente la liberazione di tutti dal peccato e dalla morte; contiene in sé la risurrezione universale, attesa per la fine dei tempi. Tutto comincia a compiersi.
Speranza certa CdA, 406 [277] Per noi quest’uomo storico, che ha raggiunto la perfezione oltre la storia, è non solo la guida morale, ma il Signore vivente, che attraverso la morte ci apre un futuro definitivo di vita e di pace. La vittoria sul male è sicura; la storia va verso la salvezza; l’ultima parola appartiene alla grazia di Dio. Dobbiamo scrollarci di dosso la tristezza e la rassegnazione, per aprirci al coraggio della speranza.
[278] Gesù è risorto come capo dell’umanità: “come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (1Cor 15,22).
6 – NEL CUORE DELLA STORIA
CCC, 668-679
Rimane presente [279] Durante il tempo di grazia dei quaranta giorni pasquali, Gesù si fa vedere a chi vuole e dove vuole. Con l’ascensione al cielo, cessa questo farsi vedere. Cessa anche la sua presenza?“Ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose” (Ef 4,10), assicura la Scrittura. Il Risorto è più vicino a Dio e proprio per questo più vicino anche a noi; siede alla destra del Padre come Signore e proprio per questo continua più che mai a camminare sulle strade degli uomini: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20).
Nella Chiesa e nel mondo CdA, 403; 426-427 [280] Il Risorto continua con la potenza dello Spirito a operare in modo arcano nella storia, associando a sé la comunità dei credenti, suo “corpo” visibile. La Chiesa si riunisce nel suo nome, lo invoca, lo celebra, lo annuncia, gli dà testimonianza. È inviata per essere segno tangibile della fedeltà di Dio e del suo Messia agli uomini: perciò è destinata a durare indefettibile sino alla fine del mondo.
[281] Tuttavia la presenza del Regno nella storia va ben oltre le frontiere visibili della Chiesa. Lo Spirito soffia dove vuole. Ovunque c’è carità e si lavora per l’universale “civiltà dell’amore”, lì c’è lo Spirito di Dio e del suo Cristo. La storia resta una drammatica lotta tra il bene e il male; ma Cristo vive in essa, per orientarla nel senso del compimento ultimo attraverso le molteplici attuazioni dei valori di verità, libertà, comunione, pace, bellezza. La sua sovranità si dispiega nel corso dei tempi, come servizio alla dignità e alla vocazione dell’uomo, con un’attenzione preferenziale agli ultimi. In coloro che soffrono vi è una sua particolare presenza. In questo senso anche “la passione di Cristo si prolunga sino alla fine dei secoli”.
[282] Gesù risorto è più vicino a Dio e perciò è più vicino agli uomini: siede alla destra del Padre e rimane con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » dom dic 07, 2008 4:15 pm

Sempre dal Catechismo degli Adulti della CEI, i nn. 1097-1203, concernenti il Giudizio di Dio.

3. Il giudizio
CCC,1021-1022

Il giudizio di Dio nella storia [1197] Il giudizio di Dio opera già adesso, nella storia delle persone e delle comunità, per promuovere il bene e liberare dal male. La Bibbia lo vede compiersi nei confronti dell’Egitto, di Israele, di Babilonia e delle nazioni pagane; poi, in modo decisivo, nella passione e risurrezione del Cristo: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12,31). Ogni incontro con il Signore ha carattere di giudizio, in quanto provoca l’uomo a decidersi per lui o contro di lui e a manifestare il segreto del proprio cuore.
[1198] La giustizia di Dio, rivelata in Cristo, è diversa da quella degli uomini: vuole rendere giusto anche chi non lo è; offre a tutti la sua grazia, indipendentemente dai meriti, perché possano convertirsi. Ma la conversione deve avvenire, altrimenti ci si esclude dalla salvezza. L’amore rifiutato diventa condanna. “Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19).
Il giudizio definitivo CdA, 1215-1216 [1199] Il giudizio opera già in questo mondo, ma va verso un momento supremo: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male” (2Cor 5,10). È il giudizio definitivo, che per le singole persone avviene al termine della vita terrena (“giudizio particolare”) e per il genere umano, nel suo insieme, al termine della storia (“giudizio universale”).
La retribuzione personale al termine della vita [1200] La sopravvivenza dei defunti non è indifferenziata, ma felice per i giusti, triste per i malvagi. Lo indicano la parabola del ricco e del povero Lazzaro, le dichiarazioni dell’apostolo Paolo, la promessa di Gesù al ladrone pentito: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43). Il magistero della Chiesa da parte sua insegna che subito dopo la morte i peccatori non convertiti “scendono all’inferno” e i giusti “salgono in cielo”, a meno che non abbiano ancora bisogno di purificazione: retribuzione immediata dunque nell’incontro con Cristo giudice. Davanti a lui, finito il tempo della prova, si manifesta e si fissa per sempre l’atteggiamento di ciascuno nei confronti di Dio: o con lui o contro di lui. Cadono le maschere; viene alla luce, con il bene e il male compiuto, anche la più profonda identità di ogni persona.
Giudizio di Dio e autogiudizio CdA, 246; 257; 354-355; 802; 928 [1201] Solo nella comunione con Cristo la vita è autentica; su di lui si misura ciò che vale e ciò che non vale. Le cose terrene, cercate in modo disordinato e con tanta fatica, riveleranno la loro inconsistenza, come pula o fumo portati dal vento, come traccia lasciata da una nave sul mare o da una freccia nell’aria. I peccatori “mangeranno il frutto della loro condotta e si sazieranno dei risultati delle loro decisioni” (Pr 1,31). “L’empio è preda delle sue iniquità, è catturato con le funi del suo peccato” (Pr 5,22). “Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna” (Gal 6,7-8). L’egoismo genera morte; la carità fa vivere. Il Signore, mentre causa direttamente la perfezione e la gioia di quelli che si salvano, causa solo indirettamente la rovina di quelli che si perdono, in quanto essi, rifiutando il suo amore, rifiutano la verità e la pienezza della vita.
Cristianesimo e reincarnazione CdA, 588; 592; 595 [1202] La vita terrena è breve e preziosa. Ci è concessa per maturare la scelta di Dio, una scelta definitiva, irreversibile. Si vive e si muore una sola volta e si decide un destino eterno. La reincarnazione, intesa come ripetizione e rimessa in questione dell’esistenza, è inconciliabile col cristianesimo; possono essere accettate solo le attese di sopravvivenza e di purificazione in essa contenute. Ma è la grazia di Dio che ci purifica, senza necessità di ricominciare da capo. L’uomo, consapevole dei suoi difetti, può morire ugualmente sereno, confidando che Dio lo purificherà e lo porterà a perfezione in Cristo.Purtroppo l’idea della reincarnazione seduce molti. In occidente essa si presenta come possibilità di progresso spirituale indefinito, mettendo a frutto le esperienze fatte in precedenti esistenze. Questa interpretazione contraddice la dottrina orientale originaria, che considera il ciclo delle rinascite un male, una dura necessità da cui liberarsi. D’altra parte essa appare senza fondamento. Dove sono i ricordi delle precedenti esistenze? Dove sono le esperienze acquisite? Come possiamo servircene, se neppure le ricordiamo?
[1203] Dio è nostro giudice in quanto è la nostra vita e il nostro bene. Donandosi a noi nell’amore, ci provoca a scegliere: o con lui o contro di lui.La nostra scelta diventa irreversibile e si manifesta pienamente nell’ora della morte.
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda GrisAdmi » dom dic 07, 2008 4:16 pm

Ed i nn. 1226-1232, concernenti la condizione dei Beati in Cielo.

7. Il paradiso
CCC, 1023-1029

Immagini della beatitudine [1226] La suprema perfezione e felicità è ineffabile. Per evocarla, la Bibbia si serve di immagini derivate dalle esperienze più gratificanti: cielo, città di pietre preziose, giardino, convito, nozze, festosa liturgia, canto. Ma i frammenti di bellezza e di gioiosa comunione che germogliano sulla terra sono soltanto un tenue barlume. Incontro immediato con Dio uno e trino, totale comunione con gli altri, armoniosa integrazione con il mondo: ecco la meta, verso cui gli uomini sono incamminati. “Stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita” (Ap 7,15-17). “Vidi un nuovo cielo e una nuova terra... Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”” (Ap 21,1-5). “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello... Il trono di Dio e dell’Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte... e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 21,23; 22,3-5).
Comunione immediata con Dio CdA, 313; 348; 808 [1227] Per inaudita condiscendenza del suo amore, Dio che abita “una luce inaccessibile” (1Tm 6,16) si china sull’uomo e lo innalza fino all’immediatezza della sua presenza. Prima ci viene incontro nella storia con l’incarnazione del Figlio e l’effusione dello Spirito, ci rende suoi figli e ci dispone a entrare nella sua intimità; poi, dopo la morte, perfeziona in noi la vita di grazia e apre il nostro spirito, perché possiamo vederlo e amarlo direttamente come è in se stesso. “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).Il cielo cresce nel seno della terra. Un bambino nel grembo materno è già dotato di intelligenza e volontà, ma deve crescere, perché possa effettivamente intendere e volere. Così noi nella vita terrena siamo già assimilati a Dio, orientati e uniti a lui mediante la grazia santificante, la fede, la speranza e la carità, ma occorre un ulteriore sviluppo perché possiamo incontrarlo in modo manifesto: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12).Il magistero della Chiesa precisa che Dio si offrirà a noi direttamente senza il tramite di alcuna creatura e ci introdurrà nel segreto della vita trinitaria. I beati “vedono chiaramente Dio, uno e trino, come egli è, più o meno perfettamente a seconda dei loro meriti”.La comunione immediata di conoscenza e di amore coronerà la vicinanza inaugurata nella storia. Saremo associati pienamente a Cristo risorto dallo Spirito Santo e accolti con lui presso il Padre: “Per mezzo di lui possiamo presentarci... al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,18). Si realizzerà per intero la preghiera del Signore Gesù: “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità” (Gv 17,23). Non è pensabile per l’uomo un destino più alto della visione beatifica: partecipare alla comunione trinitaria; conoscere, amare, essere felici come Dio conosce, ama, è felice.
[1228] Nella beatitudine celeste, come già nel cammino terreno, sarà sempre Gesù Cristo la porta di accesso al Padre. Il Signore crocifisso e risorto, comunicando in modo definitivo il suo Spirito, ci unirà perfettamente a sé e ci renderà pienamente figli di Dio, capaci di vedere il Padre “come egli è” (1Gv 3,2). Dio “sarà visto nel regno dei cieli nella pienezza della sua paternità. Lo Spirito infatti prepara gli uomini nel Figlio. Il Figlio li conduce al Padre. Il Padre dona l’incorruttibilità e la vita eterna, che derivano dalla visione di Dio”.
Assemblea festosa [1229] Il compimento in Dio comporta la comunione universale con gli uomini e gli angeli fedeli. La Chiesa sarà “tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,27). Gli uomini abiteranno nella celeste Gerusalemme in festosa convivialità e Dio abiterà con essi. Troverà appagamento la loro tendenza a incontrarsi e comunicare, il movimento di tutta la storia verso l’unità. Saranno sublimati tutti i rapporti autenticamente umani, avviati durante il pellegrinaggio terreno, i legami intrecciati nell’amore, nella conoscenza e nel lavoro. Le esperienze attuali più riuscite di comunione tra amici, tra coniugi, tra genitori e figli prefigurano l’universale comunione dei santi in Dio, ma sono ben poca cosa al confronto di essa. Se è meravigliosa già adesso la compagnia delle persone buone e intelligenti, che cosa sarà la compagnia di tanti fratelli “portati alla perfezione” (Eb 12,23)?
Armonia cosmica CCC, 1046-1047 [1230] La salvezza, poiché riguarda l’uomo intero, include anche un nuovo rapporto con il mondo, un’armonia e una presenza nuova. Il mondo è il mondo dell’uomo: nulla andrà perduto; tutto sarà trasformato. “Insieme con l’umanità, verrà pienamente restaurato in Cristo l’intero universo, che è intimamente unito all’uomo e raggiunge il suo fine per mezzo dell’uomo”. Il mondo è dell’uomo, l’uomo è di Cristo e Cristo è di Dio e Dio è tutto in tutte le cose. Non ha senso però situare il paradiso in qualche parte dell’universo piuttosto che in altre. Il cielo, nel linguaggio religioso, è un simbolo per indicare Dio e, secondo la fede cristiana, “la vita è essere con Cristo: dove è Cristo, lì è la vita, lì è il Regno”.
Piena attuazione personale CCC, 1045 [1231] Introdotti con Cristo nel mistero della Trinità divina, saremo pienamente noi stessi. La perfezione non comporterà un assorbimento del proprio io in un tutto indistinto, ma uno stare insieme nella conoscenza e nell’amore reciproco. “Saremo sempre con il Signore” (1Ts 4,17). I santi formeranno una comunità di persone e non una massa collettiva senza volto. Ognuno sarà introdotto alla festa con un invito personalissimo: avrà “una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2,17). Anche la perfezione sarà diversa secondo i doni ricevuti nella vita terrena e la corrispondenza verso di essi. Tutti però saranno beati secondo la loro capacità e tutti si rallegreranno del bene degli altri come del proprio. Armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stessi: nel gaudio eterno si quieterà il desiderio illimitato del cuore; sarà il riposo, la festa, il giorno del Signore senza tramonto. “Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza! Oh vita integra d’amore e di pace! Oh senza brama sicura ricchezza!”.
[1232] La persona umana ottiene il suo compimento gioioso nel paradiso, esperienza immediata di Dio, comunione perfetta di amore con lui, con gli angeli e i santi nell’armonia universale del mondo creato.
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda francocoladarci » dom dic 07, 2008 6:33 pm

Un sentito Graze a Trianello, la cui esposizione è stata molto chiarificatrice riguardo all'argomento trattato.
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda algoritmo70 » dom dic 07, 2008 7:13 pm

Esodo;19,6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.Queste parole dirai agli Israeliti. Poichè Dio è il Santo così e egualmente il Suo popolo,noi siamo il Suo popolo,Sacerdoti perchè Egli è Re e Sacerdote ,noi popolo consacrato,perchè ogni cristiano battezzato è Israele ed Egli fa con noi ciò che fece del popolo che condusse fuori d'Egitto,lo portò in una terra Santa perchè lontana dal male,noi con il Battesimo passiamo dalla morte alla vita,lavati dal peccato ,toccati dalla grazia,perciò entriamo a far parte del popolo regale cioè santificato in virtù del Battesimo.algoritmo70
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda Generale Specifico » dom dic 07, 2008 9:17 pm

Acc... che lenzuolone... Comunque, possiedo il testo in oggetto e si tratta di un vero tesoro per tutti coloro che vogliono crescere nella loro fede cattolica. :D
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Re: Il ruolo dei Santi nel "Regno"

Messaggioda Mari » mar dic 09, 2008 10:03 pm

Grazie per la risposta, sicuramente esauriente, che ho visto stasera, mi prenderò il tempo per studiarmela bene, avendola stampata tutta, così da poterci meditare sopra.

Un caro saluto

Mari
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