Lineamenti di Storia delle Religioni

Qui può scrivere chiunque trovi dei testi adatti alla formazione dei Grissini. Le cose che lo staff riterrà più idonee a tal fine saranno successivamente inserite nella sezione "Per la formazione".

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Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:49 pm

Qualche giorno fa, ho scovato sul sito http://www.clerus.org questo interessantissimo testo di Marco Menicocci. Si tratta di breve corso di Storia delle Religioni che, senza particolari tecnicismi, espone alcuni dei principali elementi della disciplina così come questa è intesa dalla Scuola Sotrico-religiosa di Roma, quella fondata da R. Pettazzoni (che fu il primo nel nostro paese ad occupare una cattedra di Storia delle Religioni in una università) e che ha avuto in A. Brelich e D. Sabbatucci i suoi massimi esponenti. Avendo avuto D. Sabbatucci come professore ed essendomi laureato con uno dei suoi più apprezzati discepoli, so di cosa parlo se dico che quello che qui presento è un testo davvero valido.

Buona lettura a tutti.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:50 pm

Capitolo 1

LA RELIGIONE COME PROBLEMA STORICO


Definizione del campo di studio

Il primo problema che incontra chi si accinge per la prima volta ad occuparsi di Storia delle religioni è proprio la definizione del campo di studi. A prima vista questo non sembra affatto un problema: compito della Storia delle religioni sarebbe di ricostruire le manifestazioni di quel particolare aspetto della cultura costituito dalla religione, illustrando come sono mutate secondo le varie epoche e presso i vari popoli le concezioni e le dottrine religiose. Così come la Storia dell'arte ricostruisce il susseguirsi delle manifestazioni artistiche dall'antichità ad oggi, con specializzazioni per le varie epoche (ad esempio l'arte medievale) e per le varie civiltà (ad esempio l'arte egiziana o cinese), analogamente la Storia delle religioni dovrebbe mostrare il susseguirsi delle varie religioni nella nostra cultura (per esempio la religione greca, quella romana, il Cristianesimo) o nelle altre (per esempio le religioni primitive o il Buddismo o l'Islam). A distinguere la Storia dell'arte dalla Storia delle religioni sarebbe dunque la diversità dell'oggetto: l'arte nel primo caso e la religione nell'altro. Data per scontata l'esistenza di un oggetto particolare (l'arte o la filosofia ...), ne seguirebbe per conseguenza la possibilità di fare la sua storia nel tempo e presso le varie civiltà: così come vi è una Storia della filosofia, una Storia dell'arte, una Storia del diritto, esisterà anche una Storia delle religioni.
La religione viene in questo modo vista come una realtà autonoma, particolare, presente in tutte le culture: si da per scontato cioè che ogni cultura abbia un insieme di teorie e pratiche che si possano intendere come "religione", così come ogni cultura avrà le sue pratiche che deve essere possibile intendere come "diritto" ben distinte da altre che definiremo "arte". Ciascuno di questi settori avrà poi la sua "storia" particolare e queste "storie", pur avendo occasionalmente argomenti in comune si distingueranno le une dalle altre per la differenza dell'oggetto.
Questo ragionamento, in apparenza così sensato, nasconde però gravi difficoltà teoriche e forti rischi di fraintendimento. Una prima conseguenza è che in questo modo si viene a considerare riduttivamente il compito della storia come quello di descrivere i vari modi di manifestarsi nel tempo di una realtà, mentre la storia è molto più di una semplice descrizione cronologica. Una seconda conseguenza è che si da per scontato proprio ciò che è invece il principale argomento in questione: la religione. Non appena infatti abbandoniamo la nostra cultura per rivolgere l' indagine alle culture di altri popoli ci troviamo immediatamente in difficoltà. E' lecito, ad esempio, inquadrare nelle nostre categorie l'Induismo come religione? O non è piuttosto una filosofia? Se badiamo al fatto che le tradizioni indiane presentano milioni di dei allora verrebbe naturale ritenerlo una religione. Se invece guardiamo alle profonde riflessioni sul senso della vita e dell'universo presenti nell'Induismo allora potrebbe apparire utile definirlo come una filosofia. Se poi guardiamo alle normali pratiche delle popolazioni indiane, come il timore estremo del contagio dell'impurità, il rispetto per le vacche, le usanze di casta ed altro ancora, allora potremmo qualificarlo come magia, superstizione, morale, diritto. Eccoci in una confusione classificatoria dalla quale non si esce isolando gli aspetti "autenticamente" religiosi distinguendoli da altri, culturali e sociali, "accessoriamente" religiosi: in questo caso infatti la scelta di ciò che è religioso e di ciò che è non-religioso rimane largamente soggettiva ed arbitraria. Né si esce da questa confusione dicendo che l'Induismo è un insieme di tutte quelle realtà (magia, religione, diritto,...) unite, magari, ad altro ancora. Dire che l'Induismo è tutto infatti non ci aiuta a capirlo meglio. Tanto vale allora rinviare il problema di come classificare l'Induismo e dedicare la nostra attenzione ad una analisi critica delle nostre categorie interpretative. Tra queste, per i nostri scopi, la prima da sottoporre a verifica è proprio la nozione di religione.
Quello che dobbiamo chiederci è se sia lecito, in sede storica, interpretare elementi culturali di altre culture utilizzando la nostra categoria di religione. Un dubbio che è tanto più lecito in quanto in nessuna delle altre culture del mondo, oltre alla nostra, esiste un concetto paragonabile o analogo al nostro concetto di religione e in nessuna lingua non occidentale esiste un termine in grado di tradurre la nostra parola "religione". Naturalmente a seguito del contatto con l'Occidente, sia a seguito della colonizzazione sia per acculturazione, oggi tutti i popoli, praticamente, dispongono e utilizzano il termine e il concetto di religione: lo hanno però mutuato da noi e non si tratta di un elemento culturale originario. Il Cristianesimo, elemento determinante nella definizione della cultura occidentale (al punto che i fondamentalisti islamici per designare gli occidentali li definiscono Cristiani) ha portato alle varie popolazioni la nozione di religione: tuttavia, prima dell'incontro/scontro con l'Occidente, nessuna cultura possedeva la categoria di religione per designare certi aspetti del reale (pratiche, comportamenti, credenze) e per distinguerli da altri ritenuti non-religiosi.
Si potrebbe obiettare che all'assenza del termine non deve corrispondere necessariamente l'assenza del fatto. Pur non conoscendo e non utilizzando un termine/concetto di religione, cioè, questi popoli potrebbero avere ugualmente un insieme di pratiche e di norme che poi noi potremmo legittimamente definire religiosi. Secondo questa obiezione anche se nessuno, oltre agli Occidentali, ha un termine equivalente al nostre termine "religione" nondimeno "l'essenza" del fatto religioso sarebbe presente in tutti i popoli: tutti avrebbero una religione, magari inconsapevolmente, magari mescolata ad altre pratiche, magari rozza e primitiva ma pur sempre riconoscibile come religione.
Prescindendo dall'arbitrio di presupporre che un popolo abbia una religione anche se non lo sa, così operando trasformiamo però la religione da problema storico in problema metafisico. La religione diviene una categoria eterna dello spirito, una dimensione permanente dell'animo umano, un tratto universale in grado di manifestarsi nella storia e di condizionarla ma che in sé è sottratto alla storia, è prima della storia, nel senso che la sua genesi sarebbe fuori dalla storia. Secondo questo ragionamento vi sarebbe prima la Religione, con la maiuscola, e poi la descrizione delle sue manifestazioni storiche: religioni primitive, Cristianesimo, Buddismo, Islam, e via di seguito. Tutte le varie religioni storiche sarebbero aspetti di un'unica realtà fondamentale: esse mostrerebbero ciascuna un aspetto del vasto campo della Religione senza però mai esaurirlo completamente. In questo modo la religione viene intesa come una componente universale dell'uomo, un elemento della civiltà separata dalle altre componenti e dagli altri prodotti culturali, una dimensione del reale autonoma rispetto alle altre. La conseguenza però è che così separiamo la religione di ciascun popolo dal resto dei rapporti culturali di quella civiltà, ci allontaniamo dalla realtà e inseriamo la religione in un contesto puramente ideale rispetto al quale il compito della storia è assai ridotto. Scivoliamo lentamente ma inesorabilmente nel campo della metafisica: se la religione è qualcosa di connaturato all'uomo, qualcosa che precede la storia, potremo al massimo descriverne le manifestazioni storiche ma non comprenderla per intero come fatto storico. Le stesse esperienze religiose vissute dagli uomini nelle varie culture potrebbero al massimo venire descritte ma non mai spiegate completamente in termini storici poiché per definizione la religione rimanderebbe al metastorico. Le categorie razionali potrebbero avvicinarsi ma mai comprendere totalmente l'esperienza religiosa.
Simile in realtà, anche se muove su un piano materialistico, è la tesi che riduce la religione a fatto psicologico. La religione sarebbe un fatto innato dell'uomo, un prodotto del suo inconscio, interpretabile, a seconda delle varie scuole, come sublimazione di pulsioni, come manifestazione di archetipi pan-umani, come espressione innata dei bisogni dell'uomo. In questo modo la spiegazione psicologica sposta l'accento dalla storia alle scienze della natura: la religione, fenomeno secondario di altre realtà psichiche primarie, è ridotta a fattori inconsci, individuali o collettivi che siano. Fattori determinabili tutti sulla base delle leggi naturali che regolano la psiche. In questa ritirata dalla storia alla natura quello che si perde è proprio la ricchezza della varietà storica. Puntando tutta l'attenzione sull'origine psichica della religione si finisce per perdere di vista la spiegazione della straordinaria varietà delle concrete, storiche, manifestazioni religiose. Naturalmente questo non significa che la psicologia non abbia posto nello studio dei problemi storico-religiosi. Ammettendo che lo stesso ambito della psiche è, almeno in certi limiti, storicamente e culturalmente condizionato, può essere utile, e vedremo come, per la Storia delle religioni considerare i fattori psicologici. Ma in questo uso non si tratta più di interpretare la religione come semplice prodotto psichico, su un piano ideale pan-umano.
Questa ritirata nell'irrazionalismo metafisico o nel naturalismo psicologico è esattamente ciò che non è concesso allo storico. Naturalmente nulla vieta a chi è mosso da altri interessi (filosofici, teologici, fenomenologici) di occuparsi delle religione come se fosse una dimensione eterna dello Spirito o una dimensione permanente della mente o dell'animo dell'uomo, come se fosse cioè una realtà naturale o metafisica sottratta al divenire storico: una realtà sempre esistita ma della quale solo a partire da una certa epoca si sia avuto il concetto. Si tratta di interessi legittimi ai quali corrispondono metodi di indagine particolari e adeguati alle differenti prospettive. Non sono però né i metodi né gli interessi dello storico il quale, per definizione, ha a che fare solo con prodotti storici e deve guardare alla religione come se fosse unicamente un fatto storico, un prodotto culturale. La Storia delle religioni studia la religione come prodotto storico indipendentemente da ogni riferimento trascendentale rispetto alla storia (come ad esempio la verità oggettiva o la salvezza che il credente si aspetta dalla sua fede, aspetti questi che rientrano nella sfera di competenza della teologia). La religione non può essere vista come un fatto autonomo, separato dal resto del contesto storico e slegata rispetto al resto della cultura bensì va vista come un prodotto culturale umano, un fatto esclusivamente storico. L'ipotesi corretta da cui partire è che se un popolo non ha ritenuto di definire alcuni aspetti della vita come religiosi è perché non ha aspetti della vita che sono religiosi.


Il Cristianesimo e la nascita della religione

Lo stesso nostro concetto di religione, del resto, non è sempre esistito ma è esso stesso un prodotto storico che si è formato (e continua a formarsi) nel corso della nostra civiltà - a partire dallo scontro del Cristianesimo con altre correnti ideologiche e culturali del mondo antico - mediante la trasformazione del termine latino religio. Questo termine designava inizialmente certi atteggiamenti e pratiche (timori, tradizionalismi, divieti) che solo in minima parte coincidono con ciò che oggi intendiamo per religione. Neanche nella cultura romana, pertanto, che pure è quella dalla quale abbiamo derivato il termine religio, esisteva qualcosa di corrispondente al nostro concetto di religione. Questo concetto è nato a seguito dell'incontro tra Cristianesimo e cultura romana. Per poter far trionfare il suo messaggio universalista ed evangelico, con una forte componente di proselitismo, il Cristianesimo dovette qualificarsi ed individuarsi in opposizione ad alcuni fatti culturali romani. Considerata la natura "religiosa" del Cristianesimo questi fatti romani cui si voleva opporre vennero considerati anch'essi come religiosi. Di una religiosità però sbagliata, opera del demonio: nasce così il paganesimo come religione negativa. Assumendo il Cristianesimo e il paganesimo come religioni opposte, i Cristiani poterono definire la loro diversità rispetto ai pagani mediante la diversità dei contenuti della fede. I contenuti religiosi del paganesimo, gli dei e i riti del politeismo, erano falsi, mentre i contenuti religiosi del Cristianesimo erano veri. Questa scelta ebbe notevoli conseguenze per la nostra storia culturale. La prima conseguenza è che da allora sono divenuti centrali, nella definizione di religione e quindi anche per distinguere una religione vera da una falsa, i contenuti della fede, il tipo di fede. La seconda è che distinguendo all'interno della cultura romana una una sfera religiosa, ovvero il paganesimo, da una sfera che definiremo "civica", il Cristianesimo poté sostituirsi come religione vera al falso paganesimo lasciando però intatti tutti quegli aspetti della cultura romana classica che potevano essere valorizzati. Presentandosi come una religione vera che va a sostituire una religione falsa, il Cristianesimo poté ritagliarsi, all'interno della cultura romana un campo d'azione, quello religioso, nel quale inserirsi senza distruggerla totalmente. Tutti i tratti culturali della sfera "civica" - si pensi alla dialettica tipica della cultura di Roma tra pubblico e privato, allo Stato come Res pubblica, alla giurisprudenza e, in età imperiale, alla filosofia greca - vennero non solo lasciati integri ma anzi valorizzati dal Cristianesimo. Questo consentiva al Cristianesimo di utilizzare tutta quella parte della cultura romana che non sembrava inconciliabile con il proprio messaggio religioso ed anzi appariva utile: ad esempio la giurisprudenza per le formulazioni del diritto canonico e la filosofia classica per le formulazioni teologiche. Ebbe così origine quella distinzione tra la sfera religiosa e quella civile che caratterizza la nostra cultura ma che era sconosciuta alla cultura romana. Distrutta nella sua organicità la cultura romana ha a questo punto termine e nasce la Civiltà Cristiana. Una rivoluzione culturale della quale noi ancora oggi siamo il prodotto.
Il termine religio, nel nuovo significato di religione, venne imposto dal Cristianesimo a tutte le lingue indoeuropee e il concetto di religione ha finito per essere usato per coprire ciò che, nelle altre culture, aveva riscontri analogici con i fatti cristiani. Rimane da spiegare perché il Cristianesimo ha scelto proprio il termine religio per definire se stesso. Una risposta certa necessiterebbe di un'indagine che è ancora largamente da completare. Si possono però avanzare delle ipotesi. Nella cultura romana per indicare alcuni culti rivolti in esclusiva ad una divinità, e pertanto che caratterizzavano esclusivamente quella divinità, si utilizzava il termine religio. I Misteri Eleusini, ad esempio, con il loro insieme di culti rivolti esclusivamente a Cerere, venivano definiti religio Cereris. Il Cristianesimo, con il suo intransigente monoteismo e con il culto rivolto esclusivamente a Dio, poteva facilmente essere definito religio, ed i suoi fedeli essere religioses.
La nostra abitudine a distinguere i fatti religiosi dal resto delle manifestazioni culturali di un popolo (a distinguere il religioso dal civile) si rivela pertanto, quando ci occupiamo di culture diverse da quella occidentale, solo un arbitrio. Separare certi tratti culturali, qualificandoli come religiosi, da altri non religiosi equivale a fraintendere la realtà storica. Il compito dello storico è dissolvere tutti quei fatti qualificati a lungo come religiosi nella concretezza culturale delle altre civiltà, evitando di imporre le nostre categorie interpretative e cercando invece di ricostruire le logiche interne di queste culture. In alcuni casi saremo autorizzati a usare il concetto di religione, in tutti quei casi nei quali abbiamo a che fare con la cultura occidentale o con altre (per esempio l'Islam) che si sono strettamente confrontate con essa. In altri casi no. Rimane comunque che non potremo mai separare alcuni fatti sottraendoli alle interpretazioni storiche per inserirli su un piano ideale, attingibile solo dai metafisici o dagli psicologi. Il compito dello storico è cancellare ogni assolutezza e relativizzare ogni valore e tratto culturale alla civiltà che ne è portatrice. Anche se a volte può essere corretto usare la religione come un elemento di qualificazione di determinate unità culturali (ad esempio: Civiltà Cristiana o Islamica) rimane comunque che si tratta di un uso derivante da un giudizio storico e non basato su diversità qualitative dei fatti religiosi rispetto al resto dei fatti culturali.
I diversi fatti storici che qualifichiamo come religiosi dunque sono legati strettamente agli altri aspetti culturali delle varie popolazioni e delle varie civiltà e, tranne che per la civiltà occidentale, non abbiamo alcun diritto di distinguerli dal resto della cultura.
Ciò di cui occorre renderci conto è che la stessa concettualizzazione della religione è, per noi, un fatto storico. La religione non è sempre esistita ma è un prodotto della cultura occidentale nel suo sviluppo ed anzi un prodotto rivoluzionario tale da connotare in modo decisivo l'Occidente. Si è costruita una abitudine nostra, un nostro condizionamento culturale, a pensare certi fatti in termine di religione. Condizionamento del quale dobbiamo prendere coscienza per eliminarlo. Non solo dunque non abbiamo alcun diritto, se non quello derivante da un pregiudizio, di interpretare come "religiosi" fatti di altre culture ma dobbiamo anche ammettere che se il concetto di religione si è formato nella nostra civiltà, e con essa si trasforma, non potrà avere un significato eterno.
Le difficoltà di natura pratica e teorica nelle quali ci imbattiamo nel nostro sforzo di trattare la religione come un fatto autonomo nascono in realtà da una consuetudine: la consuetudine propria della nostra cultura che ci porta a distinguere e classificare i fatti religiosi come diversi da quelli non religiosi. Nella nostra cultura è possibile in effetti isolare un sistema di valori qualificati come religiosi e distinguerli da un altro sistema di valori che potremmo definire civici. Si pensi, come esempio, alla distinzione, presente solo nella nostra cultura, tra feste civili e religiose, tra il battesimo di un neonato e la sua iscrizione all'anagrafe. Si tratta di due livelli di realtà che coesistono. Alla sfera del religioso appartiene la dialettica sacro/profano; a quella del civile la dialettica pubblico/privato. Il profano non si identifica con il civile: il profano è semplicemente ciò che non è sacro. L'ostia, prima della consacrazione non è "civile", né è "civile" il fedele che non è stato "consacrato" sacerdote. Il civile gioca su un altro piano, quello sul quale tutti i cittadini (da cives), indipendentemente dalla loro fede e dalle loro qualifiche religiose, sono sottoposti al diritto pubblico e al diritto privato. Ecco allora la possibilità per noi di isolare la sfera del religioso da quella del civile e di affidarne lo studio ad un'apposita disciplina, la Storia del Cristianesimo. Non è però lecito operare questa distinzione nelle altre culture: farlo significa ridurre le realtà altrui alla nostra e dunque fraintenderle. Né è possibile pensare che la nostra è una definizione riduttiva di religione, alla quale pertanto si potrebbe opporre una definizione più ampia: quella offerta non è una definizione ma la ricostruzione di come si è formato questo concetto nella storia. Rifiutare questa ricostruzione come irrilevante in nome di una più ampia definizione di religione, tale ad esempio da includere l'Induismo, significherebbe considerare come irrilevante un fatto storico accertato in nome di una definizione astratta ed arbitraria perché soggettiva. Dal punto di vista storico i fatti non sono mai irrilevanti. Questo significa che l'Induismo non è una religione? Pazienza, l'importante non è dargli questa o quella qualifica assoluta, poiché la storia non ha per obiettivo quello di giungere a definizioni assolute, ma comprenderlo storicamente. Quanto agli dei dell'Induismo, e al problema della fede degli Indiani in questi dei, la domanda corretta, che mette in causa la nozione indiana di "fede" e la nozione indiana di "divinità" (senza cioè pretendere di applicare meccanicamente all'India le nostre nozioni di fede e di divinità), è: quali funzioni hanno gli dei dell'Induismo? Per quali motivi gli Indiani hanno attribuito agli dei proprio quelle funzioni?


La magia scomparsa

La storicizzazione del concetto di religione, e l'avvertimento circa l'impossibilità di usare questo concetto come una definizione universale sotto la quale catalogare fatti diversissimi dai nostri, ci consente anche di superare una delle più annose questioni storico-religiose: il problema della magia.
Si è a lungo discusso sul carattere della magia disputando se essa fosse una fase anteriore alla religione, una componente più o meno necessaria della religione, o l'antagonista della religione. E' stata vista come una religione poco sviluppata, propria di popolazioni "incivili", legate a concezioni appunto magiche dell'esistenza. E' stata considerata come un elemento costante e sempre presente, sia pure in misura variabile, di ogni esperienza religiosa. E' stata infine vista come l'opposto della religione, il negativo rispetto al positivo religioso: quella che distrugge e nega laddove la religione propone valori positivi e costruisce la civiltà.
Falsi problemi che derivavano da una mancata storicizzazione del problema e che ripercorrevano, per la magia, la stessa strada percorsa dalla religione: quella di ritenerla una categoria autonoma della cultura, un insieme di comportamenti permanenti e irriducibili ad altre valenze.
Proviamo a vedere cosa rimane della magia dopo una adeguata storicizzazione. Per magia si intese inizialmente, ci riferiamo alla Grecia arcaica, un insieme di pratiche divinatorie e di arti rituali proprie dei Magi, sacerdoti del Mazdeismo (il monoteismo iranico) e dei Caldei. In realtà la cultura indoiranica della Persia e i Caldei erano cose ben diverse ma furono confusi insieme dai Greci in un unico, esotico, mondo iranico dal quale provenivano tutte le stranezze e le novità considerate negative. L'arte divinatoria, considerata magia, era estranea alla cultura greca e al culto degli dei: essa si diffuse tra gli strati meno colti della popolazione, quelli che in qualche modo pur essendo greci erano percepiti come "stranieri", non perfettamente integrati (schiavi, residenti non cittadini, mercanti, servi, donne, prostitute ...). Di qui il marchio ideologico (ma anche sociale) di attività estranea al culto degli dei e pertanto opponibile all'edificio sociale ed etico che in quel culto si riconosceva. Nella Roma repubblicana l'opposizione alla magia orientale fu rafforzata con divieti giuridici, gli stessi che perseguivano una serie di pratiche "negative" quali la preparazione di veleni, incantesimi ed altro. Quanto alla divinazione per sorte, definita "caldea", Roma aveva da sempre un orientamento ufficiale contrario sia agli indovini che a ogni forma divinatoria che non fosse quella esercitata dagli àuguri e non poteva che perseguire queste pratiche orientali estranee alla sua cultura. Il Cristianesimo, che già in sé era originariamente privo di elementi divinatori, ereditò da Roma le valenze antidivinatorie e antimagiche. Intendendo se stesso come religione intese parimenti la magia come antireligione, non-religione. In questo modo la magia diveniva una forma di irreligione e rientrava nella sfera di influenza del demonio. Ciò fornì una giustificazione teologica a molti processi per magia, processi che però non erano che la continuazione dei processi intentati ai praticanti di magia già avvenuti in età romana.
Nel periodo dell’umanesimo la "riscoperta" della magia fu lo strumento per una riconsiderazione della dimensione umana in opposizione alla cultura scolastica medievale. Naturalmente la riscoperta della magia non significa riscoprire tracce di una sapienza scomparsa ma la costruzione di un nuovo universo culturale e di nuovi valori che si è deliberatamente scelto di chiamare magia proprio perché il termine magia consentiva di opporli alla cultura religiosa dell’epoca. I nuovi contenuti "magici" sono dunque un prodotto culturale sorto per esigenze storiche e non la riscoperta di una qualche verità. Tantomeno sono una il risultato di una particolare disposizione dell’animo umano, o la riscoperta di una qualche realtà naturale o, infine, una qualche forma di religiosità. Questa rinascita della magia sotto il segno positivo la vedeva infatti comunque distinta e in opposizione rispetto alla religiosità tradizionale. Il cambiamento di segno non cancellava, cioè, la connotazione della magia come elemento non religioso se non, addirittura, antireligioso.
Magia e religione vengono da allora ad essere i poli opposti di una alternativa che è tutta interna alla nostra tradizione e alla nostra cultura. Solo per noi, grazie alla nostra eredità greco-romana filtrata dal Cristianesimo e dall’Umanesimo, esistono queste due categorie distinte - magia e religione - ciascuna con una valutazione opposta all'altra. Proiettare quest'opposizione in altre culture, con storie e tradizioni estranee alla nostra, che non hanno avuto né la tradizione greco-romana con la loro opposizione per Magi e i Caldei né la polemica umanista, equivale a fraintenderle. Fuori dall'opposizione con la religione la magia svanisce e se non possiamo parlare di religione per gli altri a maggior ragione non potremo parlare di magia.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:51 pm

Capitolo 2

IL COMPARATIVISMO


Il metodo comparativo

Fin dalle sue origini la Storia delle religioni si è avvalsa largamente di un particolare strumento di analisi: il metodo comparativo. Per comparativismo si intende quello strumento che raffronta tra loro elementi culturali simili appartenenti a popoli e culture lontani tra loro, in senso spaziale e cronologico, al fine di stabilire dei modelli comuni. Il Positivismo fece del comparativismo il suo metodo ufficiale di indagine applicandolo in tutti i campi e commettendo a volte gravi abusi e distorsioni. Mantenuto entri certi limiti, tuttavia, il comparativismo è ancora oggi uno strumento indispensabile per la ricerca storico-religiosa.
Fondamentalmente in metodo comparativo procede passando in rassegna gli usi e i costumi dei vari popoli e delle varie culture, confrontando fra loro quegli elementi che presentano delle somiglianze formali o strutturali o funzionali. Individuate queste somiglianze vengono allora elaborati dei modelli fenomenologici generali. Così, ad esempio, ricostruendo le pratiche comuni a molti popoli di cacciatori di non consumare una parte della preda appena uccisa, viene elaborato il modello fenomenologico della "offerta primiziale"; allo stesso modo comparando le varie usanze di stabilire un rapporto con i defunti si è costruito il modello del "culto degli antenati". Le tipologie delle divinità e quelle rituali (riti iniziatici, riti autonomi, riti cultuali e così via) vengono anche esse elaborate a partire dalla comparazione tra i vari pantheon e le tante pratiche rituali in uso presso le varie popolazioni. Lo scopo della comparazione è quello di ottenere dei modelli tipologici (o fenomenologici) con i quali orientare le ricerche. Per ottenere questi modelli fenomenologici il comparativismo procede aggregando per analogia elementi culturali che sembrano simili. Naturalmente questi modelli fenomenologici rappresentano una astrazione rispetto ai fatti concreti: il modello finale, proprio perché ottenuto mediante una serie di astrazioni generalizzanti, non è presente in forma "pura" in nessuna cultura. Necessariamente nei confronti del modello le varie culture presenteranno degli scarti: ciò dipende dal fatto che la comparazione comporta inevitabilmente una sorta di livellamento tra le culture comparate.
I modelli fenomenologici ottenuti mediante la comparazione possono essere utili, con una qualche cautela, per stabilire le strutture comuni ad un certo tipo di civiltà e saper distinguere da quale livello socio-economico deriva un certo tratto culturale.
Prendiamo ad esempio quelle culture che, con una certa ragionevolezza, possiamo immaginare le più semplici dal punto di vista tecnico-economico: le culture di quei popoli la cui economia si basa sulla caccia e raccolta. Sappiamo oggi quanto sia arbitrario considerare questi popoli come "primitivi" e definire la loro cultura come simile a quella dell'età della pietra. Nessuno dei popoli del pianeta è infatti rimasto immutato dalla remota preistoria ad oggi e tutti hanno avuto scambi e trasformazioni determinate dalle reciproche influenze. I popoli di cacciatori possono aver subito impoverimenti culturali ed essere stati spinti nelle regioni meno ospitali dagli scontri con altri popoli più potenti oppure possono aver elaborato tratti propri di adattamento a specifiche condizioni. Nessuna delle civiltà apparse sulla terra è uguale a nessun altra e tutti i paralleli sono per certi versi arbitrari. E' però ragionevole ritenere che tutti i popoli di cacciatori e raccoglitori conservino alcuni tratti culturali - e sviluppino pertanto sistemi simbolici relativi - funzionali al loro modo di procurarsi i mezzi di sussistenza. La comparazione delle culture dei popoli che oggi sono prevalentemente cacciatori mostra in effetti una serie di somiglianze e ciò ci autorizza ad elaborare modelli fenomenologici comuni. Ad esempio queste culture elaboreranno facilmente, al di là della varietà di forme che può assumere, la figura di un Signore degli animali, essere sovrumano in grado di controllare gli animali e quindi l'attività venatoria. Molti dei tratti culturali dei popoli di cacciatori sono rinvenibili, sia pure in forme continuamente diverse, anche presso popoli di agricoltori. La comparazione ci mostrerà che le civiltà di agricoltori presentano tratti tra loro simili, che però mancano nelle civiltà di cacciatori. Ad esempio la figura di una Madre Terra, dispensatrice dei prodotti agricoli. Potremo allora distinguere nelle società di agricoltori, sia pure, ripetiamolo, con molte cautele, quei tratti arcaici derivati dalle culture di caccia e raccolta (ad esempio la figura del Signore degli animali) da altri meno antichi propri dell'attuale livello economico (ad esempio al figura della Madre Terra).
Naturalmente questo non ci serve per stabilire quali elementi sono vecchi e quali sono attuali, quali sono "sopravvivenze" di un passato morto e quali sono invece elementi vivi e significativi. All'interno di una cultura tutti gli elementi sono attuali nel senso che tutti svolgono una funzione: anche gli elementi propri di livelli economici diversi saranno riplasmati e riceveranno nuove funzioni tali da integrarli pienamente nel complesso della cultura di un popolo. Né la comparazione ci serve per stabilire quale origine hanno avuto gli attuali elementi della cultura di un popolo, come se si trattasse di spiegare il presente con il passato. Il problema, cioè, non è risalire per ogni tratto culturale all'elemento "originario" da cui si è sviluppato. Il problema è ricostruire un processo storico particolare e ben documentato, distinguendo gli elementi culturali antichi da quelli recenti ma solo per capire in che modo questi elementi antichi sono stati utilizzati e riplasmati per ottenere nuovi valori e significati.
Quello che i modelli fenomenologici, come risultano della comparazione, possono aiutarci a fare è riconoscere in quale livello tecnico-ambientale e socio-economico sono stati generati alcuni tratti culturali. La fenomenologia in questo senso ci offre una semplice funzione orientativa e nulla di più.


La relativizzazione storicista

Quello di ricostruire, per un complesso culturale, il livello culturale, tecnico ed economico nel quale quel complesso ha avuto origine è ancora oggi uno degli scopi del comparativismo. Non è tuttavia lo scopo principale. In una prospettiva storica, infatti, l'oggetto della ricerca non è l'elemento generale, ciò che è comune a tutti, bensì l'elemento particolare, la diversità, il fatto incomparabile. Il comparativismo storico trova la sua funzione precisamente nella valutazione di questi fatti incomparabili. Il modello fenomenologico, astratto, viene utilizzato nel comparativismo storico come pietra di paragone per identificare, in una cultura, ciò che differisce dal modello stesso. Questo elemento difforme rispetto al modello diviene, proprio in virtù della sua difformità e particolarità, l'oggetto della ricerca storica. Il modello fenomenologico vale pertanto come ipotesi di ricerca, come punto di partenza per orientare la ricerca storica nella ricerca delle particolarità. Il paragone tra le varie culture non serve a livellarle e ad assimilarle ma a far risaltare meglio le differenze tra le varie culture. In questo senso il fine dell'indagine non è di ricercare le convergenze tra le varie culture ma di far risaltare meglio le differenze.
Per comprendere meglio prendiamo il modello fenomenologico del Signore degli animali e caliamolo nella cultura greca classica. E' possibile, mediante la comparazione scorgere che la figura, tra quelle del politeismo greco, che più si avvicina al modello fenomenologico è quella di Artemis, divinità che proprio da Omero è definita "Signora degli animali". Certamente Artemis manterrà tratti che la fanno somigliare ad una arcaicissima e pre-greca Signora degli animali ma d'altra parte è chiaro che una dea di un politeismo maturo, quale l'Artemis greca, avrà in sé dei caratteri peculiari ed originali, voluti dalla cultura greca, che non sono rinvenibili nel modello fenomenologico generale. L'obiettivo della ricerca storica allora non sarà di stabilire se Artemis deriva da una Signora degli animali primitiva ma di comprendere in che modo e per quali motivi i Greci, popolo la cui economia si basava sull'agricoltura, hanno riplasmato un'antichissima figura extraumana per attribuirle tanti nuovi significati. Quello che interessa in una prospettiva storica non sono le convergenze tra Artemis e una primitiva Signora degli animali ma le differenze. Queste differenze rappresentano quanto di specifico appartiene alla cultura greca. In altre parole la ricerca storica, partendo dal modello fenomenologico, ha per obiettivo quello di definire in ciascuna cultura gli elementi irriducibili al modello stesso e, quindi, di problematicizzare questi elementi. Così, generalizzando, il problema sarà di spiegare le differenze specifiche tra i vari Signori degli animali: capire perché, ad esempio, un popolo ha una Signora ed un altro un Signore degli animali, al maschile; ovvero perché presso alcuni l'extraumano, il selvatico, venga simbolizzato al femminile e presso altri al maschile.
A partire dal modello comune, un'astrazione, guadagneremo con una ricerca prettamente storica la logica interna e le caratteristiche degli elementi di una cultura particolare e non di tutte in generale. I modelli fenomenologici, ottenuti mediante la comparazione, non hanno valore in sé ma servono unicamente come fonte di riferimento iniziale per le singole ricerche storiche particolari. Queste, lungi dal voler individuare in ogni cultura quali siano gli elementi simili, hanno lo scopo di scoprire gli elementi che rendono ogni cultura diversa dalle altre. Così, a proposito delle tipologie divine politeistiche ottenute comparando le concezioni di divinità presso i popoli e le civiltà più disparate, il lavoro procederà da queste tipologie per scoprire lo scarto del politeismo romano, ad esempio, rispetto al modello fenomenologico del politeismo. Comparando il modello fenomenologico con i fatti romani si scoprirà che vi sono a Roma elementi irriducibili a quanto proposto dalla fenomenologia: questi elementi irriducibili costituiranno la parte specificatamente romana. La tipologia, la ricerca delle tendenze comuni a civiltà dello stesso livello, è dunque solo il punto di partenza e lo scopo della ricerca storica è proprio quello di scovare quanto è irriducibile alla tipologia stessa, di vanificare ogni tipologia. La storicizzazione, secondo il metodo del comparativismo storico, contiene e presuppone un confronto tra fatti apparentemente simili. Ma ogni confronto è fatto in direzione di una storicizzazione ancora più spinta. In questo lavoro il comparativismo storico ha una funzione critica devastante sulle vecchie oggettivazioni e categorizzazioni della fenomenologia religiosa che avevano recepito acriticamente sub specie religionis elementi interpretabili diversamente. Il limite, come si è visto, è raggiunto dalla denuncia della possibilità di usare la categoria di religione per le culture diverse da quella occidentale cristiana.
L'oggetto della Storia delle religioni è la cultura nel suo insieme. Ciò che contraddistingue la Storia delle religioni come disciplina scientifica non è dunque un oggetto particolare, la religione, distinto da altri aspetti dell'esistenza umana, bensì un metodo e un obiettivo. Il metodo è il comparativismo storico. L'obiettivo è quello di una storicizzazione, la più spinta possibile, al fine di giungere ad una più consapevole coscienza storica. Lo scopo, cioè, non è di ricostruire la religione, poniamo, dei Romani, ma quello di mettere in causa le nostre categorie di giudizio relativizzandole alla nostra cultura, e questo non per rinunciare a tali categorie o per giungere ad uno scetticismo di comodo, ma per possederle in modo meno ingenuo e più consapevole. Alla fine della ricerca (il cui fine non è, ripetiamolo, raccogliere "dati religiosi") quali che siano i risultati, ci troveremo a saperne di più su noi stessi. E questo è lo scopo di ogni ricerca storica.
Un corollario del comparativismo storico è la necessità, nel confrontare tra loro elementi tratti dalle varie civiltà, di considerare questi elementi di uguale valore senza preoccuparsi della loro verità o falsità sul piano metafisico. Il problema storico, cioè, prescinde dalla considerazione di vero o falso e mira a considerare le funzioni di questi elementi. Per lo storico non vi possono essere religioni vere e religioni false: egli relativizza tutte le manifestazioni religiose a bisogni extra-religiosi. Non è possibile una Storia delle religioni confessionale che privilegiando una religione, pur accettando relativizzare alla storia i fatti religiosi degli altri, consideri la sua propria religione come un fatto autonomo, che può lasciare tracce storiche ma che è, essenzialmente, mistero, legame con l'extra-mondano.
E' possibile interessarsi più alla formula teologica, e alle verità divine che essa esprime, che alle vicende storiche che hanno portato a definirla. Ma questo è il piano teologico. Per metodo lo storico postula il mutare nel tempo della cultura e delle credenze e riporta questi fattori, sperimentati come assoluti dal credente, alla loro relatività storicamente determinata. Una processione per impetrare la pioggia nell'Italia meridionale e un rito africano al culmine della stagione secca sono assimilabili. Analogamente sono comparabili le moderne sette e religioni giovanili con il Cristianesimo delle origini. Si badi però che sarà ancora possibile esprimere un giudizio diversificante solo che tale giudizio sarà limitato al ruolo culturale e non alla verità assoluta: sul piano storico-religioso il Cristianesimo non è più "vero" delle sette contemporanee, rimane però che la sterilità di queste ultime è ben altra cosa rispetto alla creatività culturale del primo.
Il comparativismo preme dunque nella direzione di un relativismo spinto che cancella gli assoluti: il problema non è la verità metafisica ma la funzione storica. Naturalmente questa relativizzazione vale solo sul piano della metodologia storica: su un altro piano, ad esempio quello del credente (che magari è la stessa persona che fa ricerche storiche), l'interesse per problemi e valori assoluti può rimanere inalterato.


I limiti del comparativismo: Fenomenologia ed Evoluzionismo

Il metodo comparativo procede per astrazioni dai casi particolari. Ciò è inevitabile ed anzi è perfettamente comprensibile: il processo astrattivo è un momento imprescindibile di qualunque disciplina scientifica e non è possibile trasformare alcun fatto in oggetto di pensiero senza un minimo di astrazione. Ciò non costituisce un problema: il problema nasce solo se si scambiano poi le proprie astrazioni per livelli di realtà, e magari per i livelli fondamentali.
E' l'errore in cui cade quella corrente di studi che va sotto il nome di Fenomenologia. Questa corrente di studi si propone di ricostruire le strutture costanti di tutte le varie esperienze religiose e di descrivere gli atteggiamenti umani presenti in tutte queste esperienze. Utilizzando il materiale storico proveniente dalle varie culture la Fenomenologia cerca di ricostruire gli elementi costanti delle più diverse esperienze religiose in modo da mostrare come queste non siano altro che manifestazioni di una realtà o di una struttura comune a tutte. Parallelamente si sforza di descrivere i caratteri delle diverse esperienze religiose quali sarebbero esperiti dai soggetti che vivono quelle esperienze. Lo scopo è di consentire la comprensione della realtà delle varie esperienze religiose così come sono vissute dal soggetto che partecipa di una esperienza religiosa.
L'errore di questo indirizzo è di risalire dalle concrete realtà storiche a modelli costruiti a posteriori sulla base del materiale documentario, modelli a posteriori che però vengono arbitrariamente postulati "a priori". Vi sono prima i fatti concreti nelle varie culture, i quali fatti costituiscono il livello del reale, e poi i modelli fenomenologici, che rappresentano il livello dell'astrazione. La Fenomenologia rovescia il rapporto e dice che ci sono prima i modelli puri e poi le realizzazioni presso i vari popoli, realizzazioni che rappresenterebbero solo una manifestazione di una realtà superiore. Questo equivale a trasformare i modelli fenomenologici da concetti in realtà concrete e a spiegare la storia ricorrendo al metastorico.
Soprattutto, la Fenomenologia, interessata alla ricerca di ciò che è costante, finisce per trascurare proprio ciò che interessa allo storico: il motivo delle diversità tra le varie culture, l'originalità di ciascuna creazione culturale.
Simile, sul piano logico, l'errore delle scuole evoluzioniste (in verità oggi assai discreditate) le quali, con esempi tratti dalle più diverse culture costruirono delle religioni "classificatorie", cioè dei modelli astratti, che erano utilizzati per spiegare i fatti "religiosi" concreti. Veniva elaborata una scala dei gradi della civiltà e a ciascun gradino corrispondeva uno di questi modelli. Di volta in volta vennero proposte come tappe dell'evoluzione religiosa dei popoli: l'animismo, il feticismo, il totemismo, lo sciamanesimo, il tabu, il mana e così via. Queste categorie interpretative venivano poi scambiate per oggetti concreti e per livelli di realtà, con le conseguenti, inutili e fastidiose, discussioni sulla effettiva natura del totemismo, del mana, eccetera.
Nel secolo scorso la scala cronologica dell'evoluzione religiosa, così come era formalizzata dai vari autori, partiva dal grado zero della religione presso i primitivi (i quali erano primitivi proprio perché privi di religione), attraverso varie tappe, fino alle religioni sviluppate dell'Occidente: la scala procedeva dall'assenza di religione (primitivi) al paganesimo (barbarie) al politeismo (civiltà classiche) al monoteismo (Europa cristiana). Nel nostro secolo, con il diffondersi della secolarizzazione nell'Occidente "civile", il rapporto religione-civiltà fu invertito e si elaborarono modelli che procedevano dai primitivi "naturalmente" e "spontaneamente" religiosi fino al grado zero di religione prefigurato dalla civiltà industriale. A questo modelli evoluzionistici corrispondeva un etnocentrismo ingenuo mediante il quale si giudicava il passato, e le altre culture, con i valori dell'oggi.


Il falso problema dell'origine storica

E' chiaro a questo punto che lo scopo del comparativismo storico non è di cercare, per ogni fenomeno religioso, quali siano le sue radici storiche. Quello che a lungo la Storia delle religioni ha cercato di fare è stato di cercare, per ogni fase religiosa di una civiltà, le origini in una fase precedente. Ogni fase religiosa non solo era il risultato di una fase che l'aveva preceduta ma recava in sé, come eredità, numerosi elementi di quella fase anteriore. Questo come se la religione fosse intrinsecamente conservatrice e per principio incapace di tenere il passo dei tempi. Pretendere infatti di spiegare un fatto religioso intendendolo come una sopravvivenza di altre epoche equivale a considerare le religioni come estranee ai rispettivi contesti culturali.
Naturalmente il procedimento storico corretto è il contrario e consiste nello spiegare gli elementi religiosi, (come tutti gli altri elementi che compongono una cultura) come funzionali al contesto storico contemporaneo. Le limitazioni alimentari e di comportamenti della Quaresima cristiana, ad esempio, sono certo comparabili con le sospensioni rituali dei normali comportamenti che, in svariate culture, precedono alcuni periodi particolarmente rilevanti o critici dell'anno. E' possibile elaborare un modello fenomenologico di queste sospensioni rituali della normalità. Non è possibile però spiegare la Quaresima dicendo che deriva, come sopravvivenza, da antiche sospensioni rituali. Per spiegare la Quaresima dovremo ricorrere al contesto storico nel quale si forma il Cristianesimo nel suo insieme.
Sul piano metodologico il risultato di quel procedimento di ricerca delle origini fu la trasformazione della religione in un fatto autonomo senza rapporti con il resto della cultura. Sul piano pratico il risultato fu invece che gli studi si concentrarono sulla ricerca dell'Originario religioso: quell'originario che era fuori, prima, di ogni concreta attualità storico-geografica. Quest'originario, di volta in volta, venne cercato e trovato nell'esperienza numinosa che i primi uomini avevano del Cielo (la religione uranica), oppure nell'esperienza della Terra nutrice (religione ctonia), o in una Rivelazione primordiale di cui si era persa nozione nelle culture superiori (Urmonotheismus), o, semplicemente, nella prima religione storica, quella babilonese da cui tutte le altre sarebbero derivate.
Un esempio per illustrare il metodo: una conclusione generalmente accettata, raggiunta attraverso la comparazione, circa le origini dell'idea di un dio unico, stabiliva che l'idea di un essere supremo superiore a tutte le altre divinità derivasse dalle concezioni religiose dei pastori nomadi. Questi avrebbero rivolto la loro attenzione al cielo per il ruolo dei fattori meteorologici celesti nella loro economia di nomadi, per le necessità dell'orientamento con le stelle e per altri motivi simili. Di qui sarebbe derivata la nozione di un essere supremo, e poi una divinità, ubicata nel cielo o con esso identificata. Come esempi di questa religione uranico-pastorale erano normalmente citate le popolazioni delle steppe asiatiche e l'antico popolo ebraico. Il monoteismo ebraico e poi cristiano, con valenze universali e non legate a particolari livelli economici, sarebbe lo sviluppo di quella religione pastorale; mentre la divinità uranica dei pastori asiatici avrebbe avuto sviluppi nell'antica religione cinese nella quale l'imperatore era il "Figlio del Cielo" reggente del "Celeste Impero". In realtà le cose non stanno così e quella della "Religione uranico-pastorale" si rivela un'invenzione. In Asia la strada del "Dio Celeste" non va dai pastori alla Cina ma, al contrario, dalla Cina ai pastori. La proiezione di una civiltà celeste onnipotente, funzionale all'istituto dinastico degli imperatori cinesi si è diffusa per acculturazione ai popoli nomadi che entravano a contatto con la più evoluta e complessa civiltà cinese. Quanto al monoteismo ebraico l'ipotesi più accreditata è che esso derivi, per la mediazione sacerdotale dopo la conquista e la deportazione persiana, dal Mazdeismo iranico. E comunque non ha nulla a che vedere con gli antichi Ebrei in quanto pastori.
Separate le religioni dai rispettivi contesti culturali e considerati quelli religiosi come fatti autonomi, non rimaneva, per spiegarli, che intenderli come causati da altri fatti religiosi precedenti. Ogni religione di una data epoca veniva spiegata in base alla religione dell'epoca precedente dalla quale la prima sarebbe derivata. Ogni fatto religioso derivava da un fatto religioso precedente e ogni manifestazione religiosa non era che il risultato della trasformazione subita da una manifestazione precedente. Per spiegare la religione di una certa epoca occorreva pertanto risalire alla religione dell'epoca precedente e poi da questa a quella precedente ancora, sino a trovare la manifestazione religiosa originaria.
In questo modo però la religione risulta sempre estranea al proprio contesto culturale contemporaneo e si realizza una sorta di sfasatura cronologica: mentre la cultura va avanti e progredisce le religioni rimangono espressioni di una realtà ormai invecchiata, appartengono al passato, sono sempre, in qualche modo, sopravvivenze di epoche anteriori. Presentando come dato scientifico quello che è semplicemente un pregiudizio della nostra cultura, la ricerca dell'originario procedeva di pari passo con l'illustrazione di un generale processo di laicizzazione che attraversava tutte le culture: dal mito si passava al logos, dalla religione alla filosofia, dalla magia alla scienza. La stessa distinzione convenzionale tra civiltà inferiori e superiori era legata alla maggiore laicizzazione e minore influenza della religione presente nelle seconde. Un modello questo che da Vico e tramite l'Illuminismo è giunto sino a noi.
Naturalmente era anche possibile il pregiudizio opposto: ecco allora che a fronte della corruzione del laicismo si rivalutano i valori religiosi del passato e si contrappone la saggezza antica (religiosa) alla superficialità moderna (laica). Si rovescia il segno del pregiudizio ma il risultato non cambia: la religione è sempre opposta al resto della cultura.


Il particolarismo filologico

Gli eccessi del comparativismo provocarono per reazione un indirizzo, quello filologico, che proponeva di trattare autonomamente la religione di ciascuna civiltà affidandone lo studio ad uno specialista di quella civiltà. Anziché ricercare aspetti astratti considerati comuni, il compito degli studiosi era esporre in dettaglio la singola religione dell'area filologica di competenza. Così lo studio della religione romana spetterebbe al classicista, quello della religione cinese al sinologo, delle religioni primitive all'etnologo, e così via.
Tuttavia le civiltà sorgono da altre civiltà ed è evidente che gli elementi religiosi non sorgono dal nulla ma provengono, spesso, dall'azione con la quale si riplasmano e si danno nuovi significati ad elementi antichi. Anche ammettendo cioè che ciascun popolo abbia la sua religione particolare, rimane che nessuna religione crea da se i propri elementi costitutivi i quali sono presenti in gran parte anche presso altre culture. Immaginiamo ad esempio che lo specialista di culture orientali affronti l'usanza ebraica del capro espiatorio e lo interpreti come un rito di purificazione. Se non si compara questo rito con gli analoghi (non uguali) usi e riti di altre culture, si rischia di non comprendere le esigenze che hanno portato il popolo ebraico (in epoca relativamente tarda) all'adozione di questo complesso rituale. Solo considerando che si tratta di usanze assai più antiche rispetto all'uso ebraico e confrontandole con i temi funerari-eliminatori di espulsione degli spiriti dei morti di tante culture agrarie o, per fare un esempio concreto, con la festa ateniese denominata Thargelia nel corso della quale nel rito dei Pharmakoi due individui di umili origini venivano portati in giro per la città in modo da raccogliere su di loro tutti i "mali" accumulatisi nel corso dell'anno trascorso e poi venivano sacrificati, si può comprendere la specificità ebraica del rito del capro espiatorio. Ma anche nel caso di istituti religiosi peculiari del solo ebraismo, i quali siano privi di precisi riscontri con elementi analoghi di altre culture, rimane che una comparazione è necessaria. I caratteri particolari del sacerdozio o delle feste ebraiche si potranno chiarire solo comparandoli con il fenomeno più ampio del sacerdozio e delle feste: solo conoscendo che cosa è una festa e un sacerdote si potrà comprendere bene quanto di specifico e di particolare ci sia nel sacerdozio e nelle feste ebraiche.
Questa conoscenza più generale la si potrà ricavare solo con la comparazione di elementi comuni a varie culture e religioni. Una comparazione appare pertanto necessaria per ampliare la comprensione dei fatti ebraici, anche se poi, come si vedrà, lo scopo della ricerca è proprio quello, a partire dal modello comparativo, di spiegare la specificità e le peculiarità dei fenomeni religiosi ebraici.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:51 pm

Capitolo 3

IL MITO


Le storie delle origini

Delimitati il fine e il metodo degli studi occorrerà fermare adesso l'attenzione su alcuni temi culturali - il mito, il rito, le concezioni dell'aldilà - che hanno costituito di fatto i percorsi sui quali si è formata la Storia delle religioni come disciplina. Se si prescinde dagli elementi esplicitamente dottrinali, frutto di elaborazioni specifiche e che tendono ad organizzarsi in una teologia, ciò che normalmente appare come contenuto specifico di una religione sono le sue storie sacre, cioè i suoi miti, i suoi personaggi extraumani (per esempio gli dei) e i suoi riti particolari.
Praticamente tutti i popoli hanno racconti su esseri non umani (sovrumani o extraumani) dotati di poteri superiori o comunque diversi da quelli degli uomini. Può trattarsi di esseri sovrumani, come gli dei, capaci di agire nell'attualità, nel presente, e in grado di condizionare la vita degli uomini e il corso della natura, oppure di esseri la cui azione ha avuto luogo in un passato remoto e lontanissimo e che con le loro azioni hanno dato origine al mondo cosi come è oggi.
Limitiamo per il momento la nostra attenzione agli esseri di questo secondo tipo: i racconti su tutte quelle azioni che sono avvenute in un passato lontano e che hanno contribuito a formare il mondo di oggi, vengono definiti, con una parola di origine greca, miti. Un mito è dunque un racconto che narra vicende avvenute "tanto tempo fa", in un passato che definiamo "tempo mitico". Quello che distingue il tempo mitico dal tempo attuale non è la distanza cronologica ma il fatto che il tempo mitico è qualitativamente diverso rispetto a quello in cui si vive. Allora, nel tempo mitico, vivevano esseri, animali, piante diversi dagli uomini, dagli animali e dalle piante di oggi: erano possibili allora cose ed azioni che oggi non sono più possibili.
Normalmente il mito racconta di un evento (o di una serie di eventi come nel caso di un ciclo mitico) che si sarebbe verificato tanto tempo fa a seguito di azioni di personaggi extraumani. Un mito è un racconto che ha per oggetto personaggi meravigliosi e fantastici che compiono azioni straordinarie oggi irripetibili. Il mondo in cui questi personaggi vivono è completamente diverso dal mondo attuale: si tratta di un mondo in fieri, senza regole e senza nulla di stabilito, nel quale tutto è possibile proprio perché non esiste ancora nessuna norma. E' un mondo che a confronto con quello di oggi appare disordinato, informe, precosmico. E' da questo mondo caotico, dal mondo del mito, che grazie proprio alle azioni meravigliose e irripetibili dei personaggi mitici, si origina il mondo ordinato di oggi, la normalità quotidiana che costituisce la stabile cornice della nostra esistenza. Il mondo quale oggi appare ai nostri occhi è infatti il risultato ormai immutabile delle azioni compiute nel tempo mitico. Queste azioni hanno portato alla trasformazione del caos che era in principio instaurando nuove condizioni, quelle attuali nelle quali vive la società che racconta il mito.
Ciò che i miti contengono dunque è la narrazione delle origini di qualche cosa: la natura fisica (monti, laghi, mari ...), la separazione del cielo dalla terra, la morte, le istituzioni sociali, ma anche cose apparentemente banali come un fiore o un profumo. Tutto ciò, insomma, che può essere rilevante per la vita di una cultura. Vi sono anche miti che non narrano le origini di nulla: essi descrivono però, attraverso gli eventi che raccontano, le caratteristiche di esseri mitici ai quali, in altri racconti, vengono attribuite le origini di qualcosa. Indirettamente, dunque, anche questi miti si riferiscono alle origini. In conseguenza di ciò ciascun mito si comprenderà solo nel contesto dell'intera mitologia di cui fa parte. Inoltre i miti di un popolo possono essere compresi solo in relazione al complesso delle istituzioni, degli usi, della cultura intera di quel popolo.
Normalmente i miti verranno narrati da persone autorevoli (al limite da personale specializzato) e in occasioni particolari (es.: rituali). A seconda dei contesti e dei narratori il mito potrà presentare numerose varianti. Queste varianti sono tutte di pari valore e nessuna ha una funzione privilegiata rispetto alle altre: non possiamo sceglierne una e chiamarla principale o originale o più completa, dichiarando le altre secondarie, derivate, incomplete. Ciascuna variante contribuisce alla comprensione del sistema mitologico generale - e in secondo grado della cultura nel suo complesso - facendo risaltare aspetti particolari del sistema mitologico. La diversità tra le varianti può essere varia: due miti possono diversificarsi per un solo elemento mitico oppure miti del tutto diversi possono narrare le origini della medesima cosa. Nelle civiltà superiori il mito viene scritto e questo può portare ad un certo irrigidimento. Nel complesso della letteratura però possono conservarsi numerose varianti dello stesso mito.
E' possibile, in qualche caso, che una civiltà nel suo sviluppo storico, dia maggior valore ad una variante particolare scegliendola come versione "canonica". E' il caso, ad esempio, delle tragedie greche che elaborando alcune particolari varianti mitiche le hanno imposte alla cultura greca come varianti principali rispetto alle quali tutte le altre divenivano secondarie. Qui il problema per lo storico è capire come mai sia accaduto ciò.


La funzione del mito

Il tempo mitico, abbiamo visto, è totalmente e definitivamente passato (eccezione: i miti "escatologici" che narrano eventi futuri quali la fine del mondo e preparano un avvenire totalmente mutato, a prezzo però della scomparsa della realtà presente): questo significa che ciò che si è prodotto allora, nel tempo mitico, a causa di azioni eccezionali compiute da esseri del tutto diversi da quelli attuali, oggi non si può cambiare. Questo garantisce la stabilità della realtà attuale ma anche la fonda, le permette di essere intellegibile. La funzione del mito è quella di attribuire alla realtà un senso, di giustificarla, di dare significato al mondo. Alla pura casualità naturale, al caos incommensurabile e incomprensibile, privo di ragionevolezza, il mito sottrae ciò che è essenziale per l'uomo rendendolo stabile e significativo.
Tutto acquista un senso che si fonda sui tempi delle origini, tutto acquista una necessità: sottratta la realtà al caso la società può adattarvisi. Non dunque una curiosità intellettualistica astratta ma un bisogno vitale di donare significato all'esistenza spinge l'uomo a narrare i miti. Raccontando come nel tempo mitico azioni ed esseri irripetibili hanno dato origine al mondo così come è attualmente, la società fonda se stessa e le sue condizioni. Il mito fonda le cose non solo come sono ma anche come debbono essere: infatti la realtà attuale è quella che è perché così è diventata in quel tempo lontanissimo nel quale tutto si è deciso. Il mito garantisce così al gruppo umano il controllo su ciò che altrimenti apparirebbe incontrollabile e rende accettabile ciò che si deve accettare (per esempio: morte, malattie, lavoro, sottomissione) assicurando stabilità alle istituzioni e offrendo modelli corretti di comportamento.
Se il tempo attuale è, grazie ai fatti narrati nei miti, il tempo dell'ordine, il tempo del cosmo ordinato, allora il tempo mitico nel quale potevano avvenire cose oggi irripetibili è un tempo del pre-ordine, tempo precosmico. Il tempo delle origini è un tempo nel quale la realtà era fluida, instabile, priva di normalità, un tempo nel quale i valori che oggi sono consolidati dovevano ancora essere stabiliti e fondati. Gli stessi caratteri avevano le cose, gli animali e i personaggi che agivano in quel tempo: tutti mantengono un carattere precosmico, imperfetto, caotico. I personaggi mitici, che grazie alle loro azioni mediano il passaggio dal caos primordiale all'ordine attuale, possiedono tutti un carattere anomalo, imperfetto, in qualche modo caotico. Essi compiono azioni prodigiose, ammirabili a volte e spregevoli in altre, ma che comunque non debbono ripetersi più perché questo significherebbe riportare il caos nella realtà attuale.
Le azioni mitiche sono perciò tutte azioni "inattuali". La realtà è ormai ordinata e nelle sue linee essenziali non deve più subire mutamenti. Naturalmente quali siano queste linee essenziali ogni cultura lo stabilisce in modo diverso dalle altre. Ogni cultura opera una divisione tra ciò che vuole considerare immutabile e ciò che considera invece mutabile per azione umana: quegli elementi della realtà che si vogliono immutabili sono fatti tali mediante il mito, quegli aspetti che invece si vogliono mutabili per l'azione dell'uomo vengono resi tali dal rito. Mito, rito (ma anche tutta una serie di elementi che normalmente vengono qualificati come religiosi: norme di comportamento, divinità, ...) hanno la funzione, ciascuno in modo diverso, di consentire al gruppo umano di controllare la realtà sottraendola alla sfera disumana della casualità e conferendole un significato umano.
A questo punto occorre una precisazione: il mito non è oggetto di fede. In senso proprio è scorretto dire che si "crede" nel mito: il mito è vero perché lo si racconta. Non avrebbe senso, per le popolazioni che narrano i miti, una disputa sulla verità di un mito. E del resto tante varianti mitiche, diversissime, possono riferirsi allo stesso evento fondatore. Esse sono tutte vere nel senso che senza di esse la cultura di quel popolo sarebbe mutilata e la realtà sarebbe incomprensibile e dunque inagibile. Ma non possiamo dire che si crede al mito nello stesso senso che usiamo quando diciamo che nel cattolicesimo si crede che Dio è Uno e Trino. La nozione di "fede" è anch'essa legata alle mutazioni culturali introdotte dal Cristianesimo ed è inapplicabile meccanicamente ad altre culture. Infine i miti non solo narrano le origini di cose che dal nostro punto di vista sono banali e per le quali, l'origine di un fiore, stenteremmo a dire che sono oggetto di fede, ma sono a volte narrati in un clima e con contenuti del tutto comici tali da avere un connotato dal nostro punto di vista dissacrante: anche in questo caso difficilmente si potrebbe dire che si tratta di oggetti di fede.


Azioni ed esseri mitici

I protagonisti dei racconti mitici possono essere, come accade in certe mitologie, personaggi ben differenziati con nomi propri e ruoli ben definiti. In altre mitologie possiamo invece incontrare esseri totalmente indifferenziati, chiamati genericamente "i vecchi" oppure con nomi di animali. A seconda dei casi questi possono avere caratteri fortemente antropomorfizzati oppure teriomorfi oppure, addirittura, gli attori dei racconti possono essere delle cose. Alcuni di questi personaggi mitici possono aver esaurito il loro ruolo culturale compiendo azioni "tanto tempo fa", all'epoca mitica delle origini. In questo caso si tratta di esseri inattuali, la cui vicenda è conclusa. Proprio la loro inattualità può rendere superflua la loro definizione precisa in termini di identità.
I protagonisti dei miti sono i garanti della stabilità del reale proprio perché le loro azioni sono definitivamente concluse e irripetibili. Voler stabilire un rapporto con loro, renderli attuali, equivarrebbe a ripristinare il tempo caotico delle origini e a sconvolgere la normalità. Devono dunque rimanere inattuali. Nella misura in cui sono mitici questi esseri mediano tutti, con le loro azioni, il passaggio dal caos all'ordine, dal precosmo al cosmo ordinato del presente. Anche se sono i fondatori del reale, poiché la loro azione si esplica in un mondo che non è ancora quello ordinato dell'attualità, tutti, in vario modo, presentano aspetti abnormi, aberranti, mostruosi, non normali.
A seconda dei vari contesti vengono posti in luce diversi aspetti di questi personaggi. E' però chiaro che nessun personaggio mitico, proprio perché agente in un contesto abnorme, può essere connotato solo positivamente. Gli esseri mitici possono essere creatori e ordinatori ma anche stravaganti, falsi, irrazionali. Distruggono mostri pericolosi e donano agli uomini i beni più preziosi (il fuoco, la luce, gli strumenti di lavoro). Contemporaneamente però sono anche mostruosi nell'aspetto e nel comportamento, distruttori, ladri. Fondano costumi e istituzioni, sono promotori di sagge usanze e del vivere civile ma sono anche affamati insaziabili di cibo e sesso, incapaci di obbedire e di rispettare limiti, assurdamente abnormi in tutto. A loro si deve l'origine di metodi di cura per i mali dell'uomo ma dalle loro azioni hanno anche origine le malattie e la stessa morte.
A seconda del tipo di funzioni che vengono operate dai vari personaggi mitici si è pensato di poter elaborare una tipologia: si viene così ad avere, ad esempio, il Creatore ozioso, che esplica la sua azione plasmando la cornice cosmica e naturale dell'universo; il Primo Uomo, capostipite di tutto il genere umano; l'Antenato mitico, capostipite di un gruppo umano particolare o di una famiglia e che, eventualmente, può essere un animale o una pianta; l'Eroe culturale, quello che introduce usi e costumi particolari; i Demoni (o Trickster) che sbagliano tutto e incarnano il contrario di come dovrebbero effettivamente andare le cose. Questa tipologia però può causare molti fraintendimenti facendo ritenere che per i personaggi mitici esistono dei caratteri in grado di distinguerli e magari anche di stabilire gerarchie d'importanza (ad esempio nel senso che un Creatore Ozioso sarebbe più importante di un Primo Uomo).
Il problema che dobbiamo porci a proposito dei personaggi mitici non è chi sono ma cosa fanno. Ciò che li qualifica sono le azioni svolte e non il loro carattere. Queste azioni, queste funzioni mitiche, possono essere svolte dai personaggi più svariati i quali hanno una sola caratteristica fondamentale: di essere accuratamente destorificati, di essere inattuali nel presente e attivi solo nel tempo mitico. Limitiamo la nostra attenzione a due di queste funzioni cominciando dal Creatore ozioso. Il suo compito è quello di aver dato origine a quegli elementi del cosmo (il paesaggio, la morte, le distinzioni tra le specie animali e vegetali ...) che costituiscono il quadro costante dell'universo, tenendo presente che ogni cultura interpreta il quadro costante dell'universo in modo proprio.
In una mitologia la funzione del Creatore ozioso può essere svolta da una pluralità di esseri. Non vi è alcuna necessità che il Creatore ozioso sia unico né che abbia un nome proprio. Come ordinatore mitico e garante dell'ordine delle cose egli è ciò che significa l'ineluttabilità di una condizione. Con lui non occorre stabilire alcun rapporto, anzi un rapporto può essere pericoloso poiché se tornasse ad agire nel presente avremmo di nuovo la mutabilità caotica caratteristica del tempo mitico. Pertanto, poiché a causa della sua inattualità non vi è alcun interesse ad entrare in rapporto con lui, non ha alcun culto. Il suo essere ozioso è funzionale al mantenimento dello status quo: è proprio perché è ozioso, perché non agisce più, che abbiamo la garanzia della stabilità del reale.
E' possibile che alcune particolari categorie (sciamani, indovini ...), per le caratteristiche del loro ruolo, possano dover allontanarsi dal livello della normalità comune a tutti gli uomini per recuperare il tempo mitico e il contatto con il Creatore ozioso. Ciò perché necessitano di quelle capacità, perdute per gli uomini comuni, che erano possibili nel tempo mitico. Si tratta però di riattualizzazioni del Creatore ozioso che avvengono singolarmente per i soli interessati e non di culti che interessano direttamente tutta la comunità.
La seconda funzione è quella degli Eroi culturali, una categoria elaborata sul modello degli eroi della mitologia greca. Hanno questa funzione quelle figure mitiche che mediante le loro azioni danno origine ad alcune istituzioni sociali. Si può trattare delle cose più diverse: da un culto al modo di usare un oggetto, da uno strumento di lavoro ad una dinastia; fino ad elementi del cosmo naturale quale un fiume o una montagna. Si dovrebbero distinguere dal Creatore ozioso perché questo "crea" il mondo. Tuttavia spesso come l'Eroe da origine a realtà naturali, e cioè crea, così il Creatore ozioso da origine a singole istituzioni culturali. In questo senso la distinzione è assai labile. Le due figure mitiche, e tutte le altre, non si distinguono per la qualità delle loro azioni mitiche, come se esistessero azioni da "creatore" che spettano solo al Creatore ozioso distinte da altre di "civilizzatore" che spettano solo all'Eroe. In effetti un medesimo essere mitico può agire di volta in volta da Primo Uomo e dare origine alla specie umana, da Creatore e dare origine alla natura, da Antenato,e dare origine a un gruppo umano particolare, da Eroe e fondare certe istituzioni.
Le funzioni mitiche sono intercambiabili secondo i contesti e non consentono di distinguere categorie precise di esseri extraumani mitici. In una variante un'azione che porta alla fondazione di una realtà può essere compiuta da un essere che è vicino alla tipologia dell'Antenato, mentre in un'altra variante la fondazione può dipendere dall'azione di un essere che somigli alla tipologia dell'Eroe culturale. In altre parole le azioni mitiche non consentono di distinguere categorie precise e le distinzioni tipologiche hanno solo un valore di orientamento iniziale: gli esseri puramente mitici non hanno la necessità, in quanto mitici, di possedere alcuna identità precisa. Tutti, in quanto soggetti mitici, hanno il medesimo, unico, ruolo: destorificare aspetti della realtà rendendoli immutabili e sottraendoli pertanto all'agire umano.
La necessità, per le varie culture, di operare distinzioni particolari, di poter distinguere esseri particolari ben identificati diversi da altri altrettanto bene identificati, sorge ad un altro livello: quello del culto. Sono le azioni attuali, quelle possibili e realizzabili nel presente, a distinguere un essere extraumano da un altro ed è il culto che distingue, ad esempio, il campo d'azione di una divinità dal campo d'azione degli antenati. Se prego una divinità per ottenere qualcosa riterrò quella divinità particolare capace di aiutarmi in un settore dell'esistenza. Analogamente è il culto rivolto agli antenati che definisce il settore dell'esistenza nel quale questi sono eventualmente ritenuti attivi. E' dunque il culto che fa, ad esempio, la divinità distinta dall'antenato. Dopo gli esseri mitici dovremo allora occuparci degli esseri agenti nell'attualità.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:52 pm

Capitolo 4

DIVINITA', ESSERI SOVRUMANI ED ESSERI MITICI


Esseri sovraumani attuali

L'azione degli esseri extraumani può essere esaurita nel tempo mitico ma è anche possibile che essi siano attivi nell'attualità, cioè che ad essi si ricorra con invocazioni e preghiere. Occorre pertanto distinguere gli esseri puramente mitici, la cui attività si è conclusa una volta per tutte, da quelli che sono attivi anche nel presente. Questi ultimi proprio perché attivi anche nell'attualità, riceveranno un culto (rito) destinato in qualche modo a farle agire a vantaggio degli uomini. Gli esseri puramente mitici invece sono tali proprio perché non ricevono alcun culto: essi sono inattuali. Gli esseri che agiscono nel presente sono quelli ritenuti capaci, in qualche modo, di influenzare oggi, la vita degli esseri umani.
Che gli uomini, come genere, siano mortali e che esistano in generale, le malattie dipende da fatti avvenuti nel tempo mitico e sui quali non si può più intervenire. Che però una determinata persona sia malata è un fatto sul quale è ancora possibile agire. Uno degli strumenti è quello di ritenere che ciò sia dovuto all'azione di un essere extraumano attuale che è poi possibile cercare di influenzare in senso benefico mediante un culto. E' dunque il rito, rivolto all'essere sovrumano al fine di indirizzarne l'azione a vantaggio degli uomini, che connota quell'essere conferendogli una identità particolare distinta da quella di altri esseri attivi nel presente. E' la diversità dei culti a fare la diversità degli esseri sovraumani.
In alcune culture troveremo esseri che contemporaneamente hanno svolto azioni nel tempo mitico e sono attivi nell'attualità: distingueremo in questi casi tra una funzione mitica nel passato e una funzione rituale nel presente. Un esempio è quello delle divinità politeistiche greche le quali, soggetti delle azioni narrate dalla mitologia, sono anche le divinità alle quali si rivolgono culti nel presente. In questo caso le azioni mitiche, che come tali avrebbero potuto essere compiute anche da esseri indeterminati, hanno la funzione di caratterizzare personalmente i vari dei. Esse hanno cioè una funzione identificativa che si aggiunge a quella svolta dai vari culti rivolti a questi dei.
Se gli esseri mitici instaurano la realtà, gli esseri sovrumani attuali garantiscono la normalità di fronte ai continui imprevisti dell'esistenza. Gli esseri attuali rappresentano quegli aspetti della realtà che non sono controllabili dall'uomo con le sue forze ma che sono comunque importanti per la comunità. Essi non rappresentano fenomeni naturali antropomorfizzati ma rischi esistenziali concreti, o bisogni impliciti dell'esistenza, o comunque aspetti vitali di particolare rilevanza (la nascita, la morte, le malattie...) con i quali occorre fare i conti. Gli esseri che rappresentano questi rischi e bisogni vengono identificati con un nome al fine di poter stabilire con loro un rapporto diretto mediante il rito. Ciò che non ha nome non ha infatti esistenza, è nulla. In altre parole per poter dare un significato a quegli aspetti critici dell'esistenza occorre renderli comprensibili e culturalmente controllabili: il nome esprime la possibilità di significarli, di instaurare un rapporto, di controllarli sul piano simbolico.
La credenza - utilizziamo provvisoriamente questo termine - di cui sono oggetto questi esseri è alimentata dal bisogno che l'uomo ha di controllare (o di fare in modo che sia controllata) la realtà non umana. Dove non bastano i mezzi tecnici e pratici a disposizione dell'uomo e del gruppo, interviene, grazie al rito loro rivolto, l'azione di questi esseri superiori, che, almeno sul piano simbolico, consentono una soluzione. Questi esseri esistono nella misura in cui svolgono la funzione di assicurare all'uomo il controllo e il padroneggiamento, in qualche modo, di ciò che altrimenti gli sfuggirebbe o che lo terrebbe in balìa. Il fatto che il controllo avvenga sul piano simbolico non deve trarre in inganno e far pensare che si tratti di qualcosa di meno importante rispetto al piano tecnico, quasi un sovrappiù o una mera illusione. Vedremo come in effetti la distinzione tra i piani sia convenzionale e come la realtà sia costituita, per l'uomo, completamente da simboli.


Divinità ed Esseri Supremi

Gli esseri attivi nel presente possono essere divisi orientativamente in tre tipologie: esseri supremi, divinità politeistiche, divinità monoteistiche. Queste ultime nascono per reazione al politeismo riprendendo sovente caratteri degli esseri supremi primitivi. Il problema è distinguere gli esseri supremi dalle divinità del politeismo. Ovviamente la questione non riguarda la realtà ontologica o il grado di trascendenza di questi esseri: il problema è storico e concerne la funzione, il significato e le connotazioni che ogni singola cultura attribuisce ai propri esseri sovrumani o divinità. Provvisoriamente, a titolo orientativo, stabiliremo che le divinità del politeismo sono proprie delle culture cosiddette superiori mentre gli esseri supremi sono quelli delle culture cosiddette primitive ed hanno una carattere immanente alla creazione.
In una cultura primitiva l'Essere supremo è il datore di tutto ciò che è umanamente incontrollabile ed esistenzialmente importante. Naturalmente ogni cultura stabilirà a suo modo, diverso dalle altre, ciò che è importante e incontrollabile. Si tratterà ad esempio di cose come la vita e la morte, le malattie e le guarigioni, le nascite, la pioggia e la siccità. In questo modo mentre il fatto che il genere umano sia mortale dipenderà in modo ormai definitivo dalle azioni compiute dal Creatore ozioso, la morte per malattia di un singolo individuo può essere causata dall'Essere supremo. Naturalmente anche un Essere supremo può essere oggetto di narrazioni mitiche ed avere quindi funzioni di Creatore ozioso. Il problema in questo caso non è di identificare con esattezza la categoria tipologica nella quale comprendere questa figura extraumana e decidere se si tratta di un Creatore ozioso o di un Essere supremo. Né la questione è definire con precisione l'essenza e i limiti del Creatore ozioso e quella dell'Essere supremo. Le tipologie hanno solo valore orientativo: il vero problema è perché una cultura ha concepito un dato essere in quel modo. La soluzione si trova contrapponendo una funzione mitica ad una funzione rituale: il mito concerne ciò che si vuole e si riconosce incontrollabile; il rito ciò che si vuole o si ritiene controllabile. In questo modo un Creatore ozioso è inattivo e fonda realtà immutabili, un Essere supremo agisce nel presente ed è quello al quale si rivolgono culti. Se uno stesso essere è attivo nel mito come Creatore ozioso e nel presente come Essere supremo, semplicemente distingueremo tra una sua funzione mitica e una sua funzione attuale.
Occorre naturalmente discriminare con attenzione l'attualità o inattualità di un essere: chiamare in causa un Creatore ozioso o semplicemente nominarlo non equivale a rendergli un culto e quindi a trasformarlo in un essere attuale. Se il Creatore ozioso è all'origine di quel fatto ineluttabile che è la mortalità degli uomini attribuire a lui la morte di un caro significa semplicemente esprimere la propria rassegnazione dinanzi al fatto che siamo tutti mortali; analogamente bestemmiare il Creatore ozioso equivale a protestare contro un ordine mondano sentito come ingiusto.
Casi storici a parte sono costituiti da quei popoli che, a seguito di un collasso culturale o per rispondere a crisi sociali violente, elaborano un rifiuto dell'attualità storica per rivalutare l'inattualità mitica. Di fronte ad una realtà che, ad esempio per l'azione devastante dei colonizzatori, ha perso i caratteri della stabilità e della normalità, la rivalutazione del piano mitico prospetta una qualche forma di salvezza e consente nel frattempo di restituire significato all'esistenza. E' il caso di alcuni movimenti millenaristici.
Non necessariamente un Essere supremo è unico presso un popolo, è possibile però che uno di questi esseri abbia un ruolo preponderante oppure che un ruolo preponderante sia svolto da una particolare categoria di esseri (es.: gli Antenati). Al di là delle forme che gli Esseri supremi assumono, secondo le varie civiltà, sono tutti caratterizzati da un' unica condizione: ricevere culti. Normalmente ci aspettiamo di trovarli in popolazioni che non hanno uno sviluppo sociale ed economico particolarmente complesso e stratificato.
Le divinità politeistiche sorgono nelle culture stratificate e complesse, le cosiddette civiltà superiori. Alla complessità sociale corrisponde la complessità nel modo di rappresentare l'universo umano e naturale. Il cosmo è diviso in settori di azione ciascuno dei quali è sotto il controllo di una particolare divinità. Le articolazioni e i rapporti tra i vari segmenti della realtà, significati ciascuno da una delle varie divinità politeistiche, saranno espressi in termini di rapporti tra le varie divinità. Poiché ciascuno degli elementi del reale, rappresentato da un dio, non è isolabile assolutamente dagli altri, rappresentati da altri dei, i rapporti tra questi elementi sono espressi mediante un sistema di rapporti divini nel quale ciascun dio ha una funzione correlativa a quella di tutti gli altri.
E' dunque possibile ricostruire la logica soggiacente ad un sistema politeistico, logica che costituisce il senso stesso di quel sistema politeistico. Questo sistema, estremamente articolato, sarà anche dinamico: un popolo che ha elaborato un politeismo, infatti, man mano che nuove esigenze si impongono nel suo sviluppo storico, sarà costretto a mutare la sua visione della realtà, a rivedere il suo modo di intendere il cosmo. In questo senso nuove divinità (e nuovi culti) possono essere introdotte per rispondere alle nuove esigenze mentre vecchie divinità possono sparire, trasformarsi profondamente, scadere a livello di spauracchio di bambini (cioè: cessare di avere culto), scadere socialmente ricevendo culti solo da certi strati particolari della popolazione.
Nel caso di divinità politeistiche, poiché si tratta di esseri che hanno il compito e la potenza di controllare tutto l'ordine del mondo, non sarebbe in teoria necessaria l'esistenza di una mitologia. La stabilità dell'ordine sarebbe garantita proprio dagli dei. Di fatto però tutti i politeismi hanno mitologie, non fosse altro che per la funzione, già citata a proposito del politeismo greco, che queste hanno con le loro storie di caratterizzare le differenze tra i vari dei.
Con qualche cautela per quanto riguarda il Mazdeismo, probabilmente la prima cultura monoteista nell'antico oriente iranico, in relazione al quale la documentazione è limitata, tutti i monoteismi hanno avuto origine come reazione a politeismi precedenti. Ciò si traduce normalmente nel fatto che tutti i monoteismi si presentano come "fondati", rivelati cioè ad un fondatore umano, storico o mitico che sia. Il Mazdeismo (Zarathustra), l'Ebraismo (in una certa misura con Mosè), l'Islam (Maometto), il Cristianesimo, ma anche il Buddismo e lo Giainismo indiano (nella misura in cui è applicabile loro la categoria di monoteismo), sono tutti venuti alla luce a seguito della predicazione o del messaggio di un fondatore: questo indica la presa di coscienza della diversità del loro messaggio rispetto ai precedenti politeismi. I monoteismi si sono sempre originati in civiltà superiori, salvo poi diffondersi per azione missionaria o per migrazioni anche presso culture primitive. Essi sono normalmente caratterizzati (prescindendo forse dal Mazdeismo) anche da un messaggio salvifico in senso soteriologico diverso da quello del politeismo, per il quale la funzione principale è il controllo e la definizione della realtà tramite i vari dei. Questa caratteristica soteriologica deve però essere intesa con una certa elasticità, sia perché anche il monoteismo può benissimo avere funzioni prevalenti di definizione e controllo della realtà, sia perché dottrine salvifiche possono essere elaborate anche in ambiente politeistico (es.: i misteri eleusini o orfici in Grecia) e perfino presso culture primitive.
Questa tipologia ha, va ribadito, solo una funzione orientativa. Essa non pretende di definire i vari modi con cui si manifesta la nozione di divinità. E' semplicemente una astrazione di note comune da casi concreti. Ciascuna cultura avrà modi propri ed originali per definire il reale e i suoi esseri sovrumani e ci potremmo trovare, davanti a culture particolari, a dover rinunciare a questa tipologia. In tal caso, che è quello delle più antiche fasi della cultura indiana, anziché elaborare una nuova tipologia di esseri divini bisognerà comprendere perché l'India vedica e il primo Buddismo hanno voluto definire i loro dei con caratteri per certi aspetti poco "divini".


L'invenzione degli dei

Nelle prime ricerche storico-religiose, il cui obiettivo era scoprire le divinità dei vari popoli, non si era posta attenzione alla distinzione tra figure mitiche e attuali, con il risultato di avere dei che, secondo i criteri occidentali, si comportavano in modo decisamente poco divino. Quelle che erano chiaramente divinità benevole e potenti, si comportavano però nelle storie mitiche in modo malevolo e perverso. In questo caso si confondevano i caratteri mitici con quelli derivati dal culto confondendo pertanto ciò che un essere era al tempo del mito (caotico e precosmico) con ciò che invece è nell'attualità (garante dell'ordine). Un essere sovrumano (Essere supremo o divinità che sia) è tale perché riceve un culto e non perché ha miti: una divinità che ha culti è "diversa" dalla stessa divinità narrata nel mito.
Questa confusione che mescolava personaggi mitici e figure oggetto di culto nasce dalla tendenza occidentale a personificare, tendenza che viene poi proiettata arbitrariamente nelle altre culture. Sulla base di questa tendenza i primi informatori (etnologi, missionari, esploratori) si domandavano "chi" erano gli dei dei vari popoli e cercavano poi di darsi una risposta ricercando gli elementi per ricostruire queste personalità nelle tradizioni mitiche. Ora una cultura può avere personaggi mitici veri e propri, con caratteri particolari e diversificati, con nomi propri individualizzanti: è il caso della cultura greca classica. Può però anche non averli: è il caso di alcune popolazioni africane ma anche della Roma arcaica nelle quali le divinità non erano realmente "persone". In sostanza va accettato che la realtà di molti esseri mitici non è quella di un personaggio in senso nostro. Sono stati gli occidentali che, raccogliendo i dati locali sub specie religionis hanno proiettato la categoria di personalità sui racconti indigeni costruendo delle entità mitiche individuali che non esistevano nella realtà.
La logica personalizzante ha portato sovente a fraintendere le risposte dei nativi le quali invece tendevano semmai a descrivere il modo con cui vedevano il loro cosmo.
La comunicazione nativi-europei si è svolta sovente a livelli bassissimi di comprensione e questo mette in discussione gran parte del materiale raccolto dagli etnologi. Una delle domande immancabili dei ricercatori era quale fosse il dio principale dei nativi. Una domanda che presupponeva arbitrariamente che i nativi avessero un dio personale con caratteri ben determinati. Di fronte a questa domanda per la quale non avevano risposte i nativi rispondevano a modo loro rivelando non i loro dei ma il loro modo di vedere il mondo. In questo modo termini che dal punto di vista dei nativi erano descrittivi venivano invece interpretati come nomi personali dagli etnologi.
Così, per fare un esempio, gli Zulu definivano principali livelli del loro cosmo, cielo, terra e foresta, con tre rispettivi signori, il fulmine atmosferico "signore del cielo", il leopardo "signore della foresta" e un dato serpente "signore del sottosuolo". Nella loro mitologia avevano inoltre la nozione di un Creatore ozioso per il quale non avevano alcuna definizione e che era chiamato genericamente "il vecchio". Intendendo il fulmine come il nome personale ed identificandolo con "il vecchio", gli etnologi hanno inventato per gli Zulu un dio personale: il Signore del cielo.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:54 pm

Capitolo 5

IL RITO


L'azione che ordina

Quella definita dal mito è una realtà nella quale non può più intervenire nessuno, uomini o dei. Naturalmente questa immutabilità non è un fattore assoluto: essa non esprime una realtà universale, esprime solo ciò che una determinata cultura ha preteso e voluto intendere immutabile per lei. Quanto della realtà sia immutabile è dunque una scelta di ciascuna cultura. Una scelta arbitraria, si potrebbe dire. Una scelta creativa, in effetti, perché gli elementi che si voglio immutabili sono la premessa per poter esplicare l'azione dell'uomo nel resto del reale. A ciò che si vuole immutabile (mito) si contrappone ciò che invece si vuole mutabile e cioè tutto quello spazio dell'esistenza umana, naturale e sociale (situazioni, cose, persone ...) sul quale è possibile agire mediante il rito. Avremo allora riti autonomi, non rivolti a divinità e che consentono un intervento diretto dell'uomo nel reale, e riti cultuali (rivolti a divinità o esseri superiori capaci di agire nel presente) i quali consentono di agire sul reale per il tramite dell'azione degli esseri extraumani.
Un rito è un'azione, o un insieme di azioni, che vanno svolte in un certo, preciso, modo. In astratto possiamo dire che ogni rito è composto da tre momenti o fasi. La fase di allontanamento, nella quale si crea una frattura rispetto alla normalità introducendo una realtà "altra", destorificata (es.: nel rituale iniziatico i bambini vengono "rapiti" da adulti camuffati da mostri i portati nella foresta); la fase di margine, nella quale si realizzano condizioni diverse da quelle reali (nella foresta ai bambini vengono inflitte torture e mutilazioni e vengono rivelati i miti della comunità); la fase di riaggregazione, di ritorno alle condizioni normali (i bambini, ora adulti, tornano al villaggio pronti ad iniziare le attività proprie del nuovo status). Il rito, nelle tre fasi, media un "passaggio" da una condizione ad un'altra superando una crisi o comunque qualificando una nuova realtà (analogamente il mito racconta sempre il passaggio da una condizione iniziale caotica e negativa, tramite determinate azioni, ad una nuova condizione ordinata e positiva).
Il rito non è un doppione della natura nel senso che esso esprimerebbe soltanto la presa d'atto da parte umana di cambiamenti naturali (es.:l'iniziazione del passaggio dal bambino all'adulto, il matrimonio del passaggio da celibe a sposato), quasi che, comunque, i cambiamenti si realizzerebbero da soli. Al contrario il rito è il procedimento mediante il quale si sottraggono momenti e fenomeni di importanza esistenziale al dominio della natura e della contingenza per inserirli nell'esistenza del gruppo. E' dunque un atto creativo che costruisce la realtà e non una finzione.
E' vero che noi attribuiamo al rito di inaugurare una strada mediante il taglio del nastro un valore puramente retorico, ritenendo che la strada svolgerebbe comunque la sua funzione anche senza taglio del nastro, ma ciò accade solo perché non si tratta di un vero rito ma solo di un gesto retorico. Riti come l'iniziazione e il matrimonio costruiscono, nelle culture che li praticano, un nuovo stato sociale (e non biologico-naturale) per l'individuo che li subisce. Essi non accompagnano o sanciscono i mutamenti di condizione: li producono. Un individuo che non abbia passato i previsti riti iniziatici per giungere all'età adulta rimane permanentemente nella condizione di bambino e come tale è trattato. Del resto anche noi conosciamo riti che producono cambiamenti reali e non simbolici: si pensi agli effetti di una sentenza di condanna in un rito giuridico.
La funzione dei riti è di sottrarre gli eventi di importanza vitale al dominio del puramente naturale, del casuale, dell'incontrollato, per inserirlo in un ordinamento culturale, umano, retto da regole comunitarie. Facciamo il caso di un rito di purificazione che ha il compito di proteggere dall'impurità. L'impurità (in qualunque modo sia rappresentata, dal timore hindù di toccare un fuoricasta alla paura tutta occidentale dei microbi), con la sua possibilità pericolosa di contagio, apre una breccia nell'ordine delle cose, minacciando la realtà con il caos disgregatore. Di qui la necessità di eliminare un contagio che, per essere controllabile, deve essere espresso in termini significativi (es.: sporco, impurità collettiva) in modo da stabilire un rimedio (es.: lavaggio, espulsione del capro espiatorio). E' un'operazione creativa mediante la quale il gruppo si assicura il controllo di quanto potrebbe altrimenti turbare l'equilibrio.
Simile il discorso per i riti che sempre accompagnano la nascita. Un neonato è qualcosa di nuovo che viene ad inserirsi, turbandolo, in un ordine pre-esistente. Prima non c'era ed ora è qui con la sua presenza invadente. Una novità radicale che incide, di punto in bianco, sulla vita di tutti mutando profondamente l'equilibrio e l'ordine consolidato dei rapporti familiari e sociali. Questa novità deve essere mediata, ridotta ad ordine: ad essa occorre dare significato trasformando un evento naturale disordinato in un fatto culturale accettato e positivo. Questi riti significano l'ingresso, dal nulla, della vita. Discorso analogo potrebbe essere fatto sui riti funebri nei quali occorre mediare e ridurre a valore l'orrore del vuoto che, immediatamente, accompagna l'evento naturale della morte.
Un rito destorifica la crisi, la sottrae al suo svolgimento naturale sul quale l'uomo non ha presa, e la risolve su un piano "protetto", nel quale non avvengono mutamenti che non siano quelli prodotti dal rito stesso. Il rito è sacro proprio in quanto è opposto all'agire profano e con la sua azione destorificata, sottratta alla storia, si oppone alla mutevolezza e diversità delle azioni quotidiane: come la quotidianità è casuale e mutevole così il rito è preciso e sempre uguale a se stesso, senza tempo. Il mito ha per oggetto la realtà immutabile e si esprime in varianti mitiche ognuna diversa dalle altre; il rito ha per oggetto la realtà contingente e mutabile ed è pertanto visto come immutabile: la sua immutabilità, il suo rimanere sempre uguale nelle innumerevoli ripetizioni, è la condizione per poter controllare il divenire storico. La sacralità del rito, come quella del mito, non deriva da un particolare carattere mistico o religioso: per sacralità intendiamo semplicemente una realtà che, poiché ritenuta importante, non muta. E' la sacralità che può avere l'aula di un tribunale dove la legge è uguale per tutti.


Operatori rituali

In molte culture, soprattutto quelle primitive, gran parte dei riti possono essere compiuti da chiunque. Altri necessitano di una qualche specializzazione e possono essere eseguiti solo da persone particolari (capofamiglia, anziani ...). In altre culture, e in genere in quelle cosiddette superiori, la tendenza è al formarsi di personale specializzato la cui funzione è quella di compiere i riti. In questo caso normalmente la specializzazione avverrà sia nel senso che solo alcuni e non tutti, in genere dopo una qualche iniziazione, potranno compiere i riti, sia nel senso che alcuni operatori rituali saranno specializzati in alcuni riti ed altri in altri. Così, ad esempio, vi saranno sacerdoti dedicati al culto di varie divinità, oppure vi saranno "guaritori", cercatori d'acqua, addetti alle inaugurazioni, e così via. Parleremo di operatori rituali riferendoci in senso stretto a questo personale specializzato (sacerdoti, sciamani, guaritori ...) ma ricordando che, più in generale, il titolo spetta a chiunque mediante un rito opera una trasformazione nel reale.
Gli operatori rituali sono per certi versi i sostituti nell'attualità dei soggetti mitici: come questi erano capaci di operare trasformazioni nel tempo mitico, gli operatori rituali sono capaci di operare trasformazioni nel presente. Essi hanno dunque, nel momento in cui officiano il rito, una capacità "mitica". Abbiamo dunque una contrapposizione logica tra il dire mitico, su azioni di tanto tempo fa, e il fare rituale, nel tempo presente.
Questa somiglianza funzionale tra esseri mitici e operatori rituali, connessa con l'altra per la quale tanto il mito quanto il rito avvengono in un tempo "destorificato", spiega il motivo per il quale gli operatori rituali sono sovente caratterizzati esteriormente in modo diverso rispetto alla normalità degli uomini. Un operatore rituale non è un uomo normale, partecipa in qualche modo del potere di trasformazione degli esseri mitici, e simbolizzerà questa sua diversità mediante forme di abbigliamento o di comportamento diverse da quelle del resto della popolazione. Ad esempio un operatore rituale non potrà mangiare certi cibi, o esibirà una differenza di comportamenti sessuali, o vestirà in modo abnorme.
Anche presso le popolazioni nelle quali non esistono operatori rituali specializzati, popolazioni nelle quali i riti vengono compiuti da uomini che normalmente si comportano come tutti gli altri, quando il rito viene celebrato gli officianti assumono abbigliamenti particolari e si comportano in modo "diverso" dal normale. Ad esempio prima di celebrare un rito, che già di per sé rappresenta una frattura nella normalità perché realizza un tempo destorificato, gli officianti dovranno astenersi dai rapporti sessuali, mantenere un comportamento calmo e posato, e così via.


Le iniziazioni

Con il termine iniziazioni si intendono, in generale, quell'insieme di riti che segnano il passaggio di un individuo dallo stadio di fanciullo a quello di adulto. In linea di principio le iniziazioni vanno distinte dai riti di pubertà i quali, pur avvenendo all'incirca alla stessa età ed avendo sovente carattere simile, sono eseguiti privatamente, all'interno della famiglia. Le iniziazioni hanno invece sempre un carattere pubblico e sono svolte non solo nell'interesse dei singoli ma dell'intera comunità. Esse rappresentano non solo un passaggio di condizione per i giovani ma anche un rinnovamento per la società. Proprio per questo carattere simbolico sociale non è necessario tutti i giovani siano iniziati. Possono esserlo solo i maschi e non le femmine, oppure solo gruppi scelti in rappresentanza di tutti.
Le iniziazioni sono sempre segrete: non è consentito ai non iniziati di assistervi. Durante le cerimonie, che hanno frequentemente carattere violento, ai giovani vengono insegnati i riti e i miti del popolo cui appartengono: viene cioè insegnata loro la distinzione, che quella cultura stabilisce, tra ciò che è definitivo (mito) e ciò che è invece mutabile (rito) e, mediante ciò i valori fondamentali della loro civiltà. Il compito delle iniziazioni è di culturalizzare i giovani, di sottrarli alla loro condizione naturale per farli diventare membri della loro cultura, fermo restando che ogni cultura qualificherà a suo modo ciò che intende per natura e ciò che intende per cultura. Le iniziazioni costruiscono il cosmo sociale agendo sul materiale umano. Questo avviene destorificando ritualmente i giovani per la durata dell'iniziazione, inserendoli in un tempo diverso dal quotidiano, "mitico", un tempo nel quale è possibile agire per plasmare il mondo e conferendo loro una diversa qualità, quella di uomini adulti, rispetto a ciò che erano prima. Non di rado nel periodo di margine i giovani sono sottoposti a disciplina e restrizioni inusuali e severissime oppure hanno la possibilità (e in qualche caso il dovere) di agire in modo totalmente libero dalle normali restrizioni sociali. In entrambi i casi si evidenzia una diversità rispetto alla normalità quotidiana.
Oltre le iniziazioni generali possono poi esistere iniziazioni particolari, necessarie per entrare in alcune particolari categorie sociali, come i guaritori, gli indovini e così via. Non tutti possono ricevere queste iniziazioni e i meccanismi di selezione sono i più vari. Queste iniziazioni rendono capaci gli iniziati di agire ritualmente ad un livello superiore a quello degli altri uomini: esse superano ad un secondo grado la natura culturalizzando chi le subisce ad un livello superiore rispetto agli altri uomini. La normale condizione umana, quella ottenuta con la prima iniziazione che ha culturalizzato l'individuo naturale, si configura come il grado da cui occorre separarsi per giungere ad un nuovo livello. Di qui la possibilità di invertire i simboli e di usare in positivo ciò che, nelle iniziazioni era usato per definire il negativo. Per esempio le iniziazioni normali provvedono a sottolineare l'individualità sessuale dell'individuo mentre l'iniziazione a guaritore può comportare manifestazioni di bisessualità o di inversione sessuale, cioè di sessualità indistinta, non-umana.




Sacrifici e preghiere

Praticamente tutti i riti possono essere cultuali, finalizzati al culto di un essere sovrumano, e normalmente questa è la regola nelle culture cosiddette superiori. In questo caso da un parte i riti asseriscono l'esistenza dell'essere sovrumano e i suoi caratteri specifici e dall'altra stabiliscono un rapporto di controllo. Sovente ci imbattiamo in espressioni secondo le quali sono gli esseri sovraumani ad esigere il culto da parte degli uomini in cambio di favori e vantaggi. Ciò trova una espressione rovesciata nelle preghiere-minaccia rivolte agli esseri sovraumani se non realizzeranno i desideri degli uomini, in pratiche dissacratorie (rovesciamento di altari), nella soppressione di culti. Questi comportamenti indicano una coscienza, sia pure molto oscura, del fatto che gli esseri sovrumani possono esistere solo nella misura in cui sono "coltivati", nella misura in cui ricevono un culto.
Tra i riti più diffusi per rendere culto ad una divinità o ad un essere sovrumano vi è il sacrificio. Questo può assumere la forma di offerta primiziale, dono, o comunione. Nel primo caso il sacrificio precede il consumo umano ed equivale alla consacrazione di una parte del prodotto per riservare agli uomini il resto. Alla base dell'offerta primiziale vi è una visione del mondo secondo la quale questo non è dell'uomo, gli è estraneo, è di altri. L'intervento umano per appropriarsi di beni (soprattutto nel caso della caccia e dell'agricoltura) si configura come un illecito e pertanto come pericoloso. L'uomo è colpevole di sottrarre alla natura qualcosa che non gli appartiene e controlla la colpa e l'ansia che derivano dal suo appropriarsi scaricando su altri la responsabilità del gesto ("altri" e non il cacciatore hanno ucciso la preda; un animale e non l'agricoltore ha colpa del raccolto) oppure limitando la portata della violazione ad una sola parte, quella meno importante (agli uomini vanno le carni dell'animale ma le ossa, da cui risorgerà la vittima, vanno lasciate al Signore degli animali).
L'offerta primiziale stabilisce che gli uomini non pensano solo a sé ma sono pronti a dare agli dei una parte del loro lavoro: la prima parte, in genere, poiché simbolizza il primo momento dell'azione, quella che rompe la situazione pre-esistente. L'offerta destorifica una parte del bene impedendo il consumo umano ed elevandolo al livello divino: a questa consacrazione di una parte corrisponde la desacralizzazione dell'altra. Il dono è sovente l'interpretazione soggettiva dell'offerta. Esso comporta una consacrazione dell'offerta sia per un ringraziamento sia per chiedere un aiuto. La comunione è l'opposto dell'offerta primiziale: in questo sacrificio il gruppo o il singolo lasciano il livello umano per elevarsi a quello della divinità: mediante il consumo di un pasto consacrato l'uomo stesso si consacra. La comunione rafforza i legami di gruppo favorendo sentimenti di intimità e solidarietà.
Diffusa, come mezzo per rapportarsi ad un essere superiore, è anche la preghiera. Questa non necessariamente è un'invocazione di soccorso in caso di bisogno. Può essere un'invocazione ma può anche essere un elogio, un ringraziamento o semplicemente l'espressione della certezza (e della volontà) che l'essere cui è rivolta esiste. Frequentemente il ringraziamento è usato nei sistemi culturali monoteistici. Le parole delle preghiere hanno la funzione di forgiare la personalità dell'essere sovrumano cui si rivolgono (è buono, potente ...). Come invocazione la preghiera appare sovente in momenti di crisi, che possono essere occasionali, individuali, periodiche (crisi prevedibili) abituali (crisi permanenti).
I riti cultuali sono di norma, come si è detto, rivolti ad esseri attivi nel presente. In qualche caso, però, esistono anche riti rivolti a personaggi mitici (o mitizzati), come nella Grecia antica con i suoi riti rivolti agli Eroi. Questo però non ci impone di cercare nuove categorie tipologiche (magari quella dei riti rivolti a personaggi mitici) bensì di dare risposte storiche: nel caso greco ci impone di domandarci come mai quella cultura abbia dato origine a una simile pratica. La risposta potrebbe essere che il rito rivolto agli eroi ha la funzione proprio di impedire uno stretto contatto con gli eroi, di impedire che questi, la cui azione va bene solo nel tempo mitico, possano tornare ad agire nel presente. Sarebbe cioè il modo per lasciarli oziosi. In questo modo anziché cercare di ampliare le nostre categorie per cercare di farvi entrare i fatti greci abbiamo dissolto le nostre categorie relativizzandole alla Grecia.
Se è vero che da una parte praticamente tutti i riti possono rivestire un ruolo cultuale ed essere riferiti ad una divinità, nondimeno non esiste nessuna necessità, sul piano logico, per la quale un rito debba essere cultuale e non autonomo. In linea di principio, su un piano astratto, un rito non ha alcun bisogno di essere inserito in un sistema cultuale e può svolgere le sue funzioni di controllo del reale come rito autonomo. Lo stesso rito, pertanto, può presso un popolo essere usato per rendere culto ad una divinità, presso un altro essere autonomo. Ogni cultura stabilirà i propri usi a riguardo.


Le feste

Una particolare attenzione va rivolta alle feste. Per certi versi una festa è un rito ma per altri versi è il quadro di riferimento cronologico per compiere vari riti. Una festa rappresenta una frattura rispetto alla successione dei giorni normali, lavorativi. Per esprimere questa diversità si ricorrerà a comportamenti differenziati rispetto ai comportamenti normali. La festa costituisce la realizzazione di un tempo destorificato, sottratto al divenire del tempo usuale: i giorni sono tutti diversi e fluiscono di continuo mentre la festa è sempre uguale a se stessa. Sotto questo aspetto il tempo festivo è simile al tempo mitico che è diverso dal tempo usuale, di tutti i giorni: con le feste, che del resto si richiamano sovente a eventi mitici, si esce dal tempo contingente e si ritrova il tempo forte che fonda il senso dell'esistenza.
Le feste periodiche sono sovente connesse con la periodicità stagionale, quali l'anno solare, le lunazioni, i cicli vegetativi). Tuttavia anche qui non abbiamo la copia di una realtà già data ma un atto creativo: le feste danno significato a questi cicli, li costruiscono per l'uomo donando loro valore. Del resto non un qualunque momento ciclico diventa una festa ma solo quelli dei quali si vuole sottolineare l'importanza o che rappresentano una crisi simbolica ricorrente. Così si spiega la creazione di cicli artificiali, non naturali, come la settimana. In ogni caso si sottraggono alla contingenza e alla casualità del divenire momenti particolari destorificandoli e attribuendo loro valori umani. La varietà delle situazioni concrete porterà poi alla varietà delle feste le quali esprimeranno la varietà delle situazioni di importanza esistenziale che occorre preservare dall'incontrollabile. In questo modo le feste sono uno strumento per dare significato a tutto il tempo, per cosmicizzare l'anno. Esse sono pertanto la base del calendario: stabilendo le feste il calendario libera il tempo profano per le attività pratiche. Ogni cultura ha le sue feste, anche quelle che non hanno alcuna necessità di conoscere l'esatta durata dell'anno. Si può anzi dire che la necessità di conoscere con certezza una data, e dunque la necessità di comprendere in termini matematici il calendario, nasca dalla necessità di sapere "quando" occorre celebrare una festa.
Anche la festa può essere un rito autonomo o dedicato ad un essere sovraumano.


Guaritori e fattucchieri

Tra le figure più diffuse di operatore rituale vi è il guaritore, il medicine man, la persona cioè che, presso un gruppo, ha la funzione di guarire gli ammalati. Naturalmente la capacità di guarire non va intesa nel nostro senso medico-scientifico: il guaritore non è un medico e la sua azione si svolge prevalentemente a livello simbolico. Egli viene chiamato ad operare in una situazione di crisi e il suo compito è mediare il passaggio ad una situazione di normalità recuperando una situazione di "vivere umano" che la crisi rischiava di travolgere.
Per "medicina" rituale va intesa la capacità di agire in una circostanza dolorosa o spiacevole per trasformarla in piacevole o, almeno, per renderne comprensibili ed accettabili le conseguenze. Si agisce su uno stato di sofferenza per cancellarla ristabilendo la situazione di normalità compromessa dal dolore oppure si agisce sul dolore umanizzandolo e togliendogli il carattere di assurda irruzione del caos nell'ordine normale: il canto del guaritore, che narra la ricerca dell'anima della partoriente rapita dallo spirito malvagio, cattura l'attenzione della donna, le rende comprensibili e pertanto accettabili i dolori del parto, riporta alla normalità una situazione di crisi. Gli operatori rituali operano normalmente estraendo dal corpo dell'ammalato un oggetto estraneo oppure ricercando una delle sue anime disperse che, catturata e ricondotta al suo corpo, consente al malato di ritrovare la salute.
Questa capacità di trasformare l'inconcepibile doloroso in un concepibile piacevole o almeno sopportabile, è la stessa facoltà che, a livello mitico, avevano gli essere mitici di trasformare il mondo rendendolo "umano", vivibile dagli uomini. Con la differenza che con il mito si fonda l'irrimediabile, mentre con il rito si opera su situazioni rimediabili. Uno dei temi mitici più diffusi è quello dell'origine della morte (ovvero dell'irrimediabile per eccellenza) ma tutte le culture hanno anche riti per rimediare alla morte, differendola per quanto possibile e proteggendo dai mali. Il rito di cura ha un'efficacia relativa: non "cura" la mortalità intesa come caratteristica permanente del genere umano ma solo quella mortalità che è presente come prospettiva in ogni malattia. Combattere la malattia mediante un rito, ovvero curare la malattia, significa combattere la morte.
Nel caso della morte, il fatto che gli esseri umani siano mortali è un ineluttabile dovuto ad azioni mitiche. La morte di un singolo, determinato uomo, però, può rivestire un carattere di particolarità e quindi dover essere interpretata ogni volta. Che gli uomini muoiano è naturale, ma che a quell'uomo, e non ad altri, sia capitato, tra gli infiniti momenti e modi, di morire proprio in quel momento e in quel modo particolare, questo non ha niente a che vedere con quanto narrato dal mito. Abbiamo in questo caso una concezione della morte priva di giustificazioni naturali. Se quell'uomo è morto ciò è dovuto ad una causa particolare, quale ad esempio una stregoneria realizzata da un avversario, un uccisore occulto, proprio allo scopo di uccidere. La morte è sempre un assassinio, così come la malattia può sempre avere una causa in un maleficio operato da altri. In questo modo, quando la cura non ha effetto e l'ammalato muore, gli operatori rituali non potendo far rivivere il morto, possono però vendicarne la morte e punire l'uccisore. L'autore del maleficio è un soggetto attuale che, in questa concezione della morte, svolge la stessa funzione svolta a livello mitico dall'essere che ha introdotto la mortalità umana.
All'uccisore mitico corrisponde l'uccisore rituale. Gli uccisori rituali acquistano per certi versi caratteri mitici: essi sono nascosti, agiscono di notte, vivono fuori dalla società, ai margini del gruppo. Sia che assumano una configurazione del tutto mitica (come le streghe che rapiscono l'anima di notte) sia che mantengano un aggancio con la realtà (un vicino invidioso), gli operatori di malefici sono sempre fuori dalla realtà quotidiana (le streghe vivono nel deserto; il vicino cessa di essere un amico affidabile, si rivolge ad uno stregone ed agisce di notte invece di dormire, è travolto da sentimenti "non normali"). Tuttavia questi assassini devono poter essere attuali, deve essere sempre possibile scoprirli. Non possono cioè trasformarsi totalmente in personaggi mitici - oggetto di racconto - ma si deve poter agire contro di essi, in modo da poter avere sempre una possibilità di azione contro la morte. Combattendo contro la malattia e la morte, scoprendo e donando un nome agli ignoti autori dei malefici, il guaritore dona significato ad una crisi che se irrisolta trascinerebbe nel caos l'esistenza normale sconvolgendola dalle fondamenta. Grazie alla sua azione tutto acquista un significato ed anche la morte diviene controllabile culturalmente: scoprire il colpevole equivale a dare un senso al'insensato e a proteggersi da un rischio terrificante. L'azione contro la morte, la malattia, la mortalità, si configura dunque come protezione dalle influenze stregonesche, dai malefici, da tutto ciò che può essere qualificato come negativo.
Analogamente, anche quelli che possiamo definire "riti di prosperità", sono in definitiva riti contro la morte, contro il negativo.





La donna malevola

Uno dei simbolismi più diffusi, tra le varie culture del mondo, è quello che qualifica il negativo al femminile, mediante le donne. Dalle streghe alle fattucchiere, fino alla donna fatale, gli autori dei malefici sono qualificati come donne. Naturalmente non si tratta di un simbolo universale e di volta in volta occorreranno ricerche specifiche sulle varie culture per comprendere come e perché queste culture abbiano scelto la donna per simbolizzare il negativo. La ricorrenza di questa concezione ci autorizza però ad avanzare delle ipotesi di ricerca.
Un elemento da cui non si può prescindere per qualificare le donne è che esse, e solo esse, hanno la straordinaria capacità di far sorgere dal nulla nuove vite. Esse sono donatrici di vita e mediano il passaggio dei neonati dall'universo extraumano al mondo degli uomini.
Donatrici di vita, solo le donne hanno quella straordinaria capacità di far sorgere dal nulla nuovi esseri. Ma se la nascita è una vita che viene ad aggiungersi, la morte è una vita che si sottrae, che svanisce. Facile allora legare entrambi i termini allo stesso simbolo e pensare che come la nascita avviene tramite le donne anche la morte sia legata all'universo femminile. Proprietarie della vita, solo loro possono donarla, le donne divengono anche proprietarie della morte: solo loro possono togliere quella vita che hanno donato. La femminilità diviene in questo modo l'espressione della naturalità dell'essere umano, quella naturalità collegata al fatto naturale di nascere e morire. La donna è partecipe della stessa capacità generativa del mondo naturale: è capace di donare la vita naturale e di generare gli individui come sono prima di ogni qualificazione sociale e culturale. La vita che le donne possono donare è tuttavia una vita che deve essere perfezionata. Gli uomini nati naturalmente da una donna hanno poi bisogno di rinascere culturalmente, di integrarsi mediante appositi rituali in una società, di partecipare cioè ad un cosmo umano che è umano proprio nella misura in cui si differenzia dalla natura. La donna è troppo "naturale" per essere pienamente integrata culturalmente e per far sorgere la cultura occorrerà un'azione diversificante in grado di differenziare quegli individui che naturalmente nascono uguali, senza identità. Con una natura simbolizzata dal femminile, questa azione differenziante e qualificante si configurerà come maschile.
Simbolizzata al femminile la natura, la capacità di differenziare gli individui e farli rinascere culturalmente sarà simbolizzata al maschile. La donna fa nascere naturalmente e pertanto può far morire naturalmente; possiede le doti naturali di far nascere e morire. Contro questa naturalità si pone la cultura maschile, ad esempio operando una seconda rinascita, paterna anziché materna: nonostante nasca da una donna il bambino è figlio del padre. Tutte le azioni culturali contro una naturalità femminile avvengono sotto il segno "maschile": maschile è l'inserimento del bambino nella comunità e il controllo culturale della morte, femminile è il dato naturale della nascita e quello della morte stessa. Qualificata al maschile la normalità culturale, facilmente le donne possono assumere il ruolo di alterità rispetto a questa "mascolinità del normale".
Abbiamo qui una, tra le tante possibili, espressioni della dialettica natura/cultura che è alla base di ogni interpretazione culturale.


La divinazione creativa

Abbiamo visto come in caso di morte occorra accertare le cause, scoprire il colpevole e consentire di esercitare una giusta azione di ritorsione, mediante l'azione esplicita della forza o mediante una fattura vendicatrice rivolta contro l'assassino rituale. Presso molti popoli la morte è sempre causata da un autore malefico e per scoprirne l'identità si ricorre ad un atto divinatorio. La cura, come scoperta del colpevole, procede dalla identificazione, tramite la divinazione, della causa del male, del negativo. La divinazione è la premessa per poter curare. Essa ha la duplice funzione di disegnare il cosmo e di ristabilire la normalità, l'ordine, individuando il colpevole e consentendo così mediante l'azione curatrice, il superamento della crisi. Questo significa che è impossibile distinguere tra il ruolo di indovino e quello di guaritore.
L'indovino-guaritore lotta contro il soggetto malefico che è causa del male. In termini più ampi, intendendo la morte come espressione generale del male, in qualunque senso si possa intenderlo, l'indovino lotta contro il male in tutte le sue espressioni. Se il male deriva da una intenzione malefica, compito dell'indovino è stabilire chi ha l'intenzione malefica consentendo, tramite appositi riti, o di eliminarla o di volgerla al bene. La sua azione divinatoria è premessa fondamentale per la cura e in questo senso che svolga lui stesso, direttamente, i riti di cura oppure consigli chi e come debba svolgerli, è cosa secondaria: il primo atto della cura è la divinazione.
La capacità di svolgere azioni divinatorie e mediche caratterizza l'operatore rituale come un soggetto attuale il cui opposto è il soggetto mitico. La funzione curativa nell'attualità si contrappone alla funzione mitica fondatrice dell'ineluttabile. Il soggetto mitico ha introdotto la morte, l'operatore rituale lotta contro la morte e dunque lotta per la sopravvivenza. Naturalmente l'operatore rituale può anche, a volte, possedere capacità stregonesche, può può essere lui stesso lo "stregone malevolo" cui ci si rivolge per fare del male ad altri. In realtà però questa funzione "malevola" è sovente solo il rovescio di quella benevola. Chi si rivolge ad uno stregone divinatore lo fa perché vive comunque una situazione di disagio, a suo modo "malevola" e così quando - ottenuta per divinazione l'identità del colpevole di questo disagio - inizia un'azione negativa stregonesca contro altri, questa, dal punto di vista del soggetto che la intraprende, è "curativa" perché destinata a cancellare una sofferenza. E' chiaro però che dal punto di vista di terzi questa azione potrebbe benissimo connotarsi come stregoneria.
La funzione dell'indovino è quella di agire ritualmente nel campo dell'indovinabile. In questo senso il campo d'azione del soggetto attuale, l'operatore della divinazione, può prendere il posto del campo d'azione del soggetto mitico. La funzione divinatoria, cioè, si sostituisce al mito acquisendo valenze cosmogoniche, appropriandosi della capacità mitica di creare il mondo.
La divinazione non è, come potrebbe apparire, uno strumento che serve per riconoscere una realtà ignota ma già definita ma un'azione ordinatrice in grado di definire una situazione fluida. Se vi fosse un universo ordinato già pronto, realizzato una volta per sempre, lo si potrebbe conoscere una volta per tutte invece di dover "indovinare" volta per volta. Vi è invece una situazione di crisi, potenzialmente disordinata, una frattura nel normale ordine delle cose, che rende fluida la realtà e che la divinazione deve identificare e definire. Ci si rivolge alla divinazione quando le usuali norme di comportamento sono messe in crisi e non sono pertanto sufficienti ad indicare i giusti comportamenti, quando la crisi assume aspetti tali da sconvolgere i fondamenti del vivere personale o comunitario: di fronte a questa situazione occorre reagire con decisioni personali e comportamenti che possano mettere rimedio alla carenza dei normali valori. La divinazione ha proprio la funzione di suggerire i nuovi comportamenti e i nuovi valori. Quando ciò che è noto, le tradizionali certezze, sono messe in crisi da una situazione eccezionale, quando è in atto una crisi normativa, si ricorre alla divinazione la quale definisce una nuova norma (e dunque una nuova realtà, un nuovo universo) tale da ripristinare una situazione di ordine e di vivibilità.
La divinazione è collegata alla capacità di riuscita: indovinare significa avere successo, buona fortuna, ma anche uscire dalle norme di comportamento usuali per evadere nell'azzardo (fortuna, sorte) o nella meditazione. Presso alcuni indiani nord americani il giocatore d'azzardo che indovina il giusto gioco, che è fortunato e vince, acquista carisma agli occhi dei compagni. Ha dimostrato, vincendo, di essere capace di guidare il gruppo nei casi in cui, saltata la normalità, occorre ricostruire un nuovo ordine o comunque in tutti i casi in cui è necessario un leader che intervenga a definire il comportamento appropriato (esempio nelle situazioni particolari di guerra contrapposte alla normalità della pace). Proprio vincendo al gioco ha dimostrato di possedere le qualità dell'indovino, le qualità della guida che sa indovinare "il giusto" comportamento.
Per certi aspetti è simile il caso del sapiente indiano che, mediante il gesto divinatorio di lanciare un sasso su un mandala, cade in meditazione su quel particolare aspetto del mandala evidenziato, "indovinato", dal sasso. Indovinando la giusta casella il sapiente costruisce il suo universo inquadrando la sua esistenza nel nuovo ordine creato dalla sua meditazione.


La salvezza assoluta

Il rito ha dunque la funzione di organizzare il cosmo difendendo l'uomo dal male e dalla morte. Esso dona una protezione relativa, momentanea, poiché prima o poi la morte, l'ineluttabile fondato miticamente, comunque colpirà il singolo. Sono possibili però anche difese assolute, in grado di sconfiggere l'ineluttabilità della morte. Ad esempio ricorrendo ad un mito escatologico che fondi una realtà a venire nella quale non vi sarà la morte. Simili miti si diffondono soprattutto in quei casi in cui sconvolgimenti radicali distruggono del tutto le usuali forme culturali. Una seconda possibilità è costituita da operatori rituali capaci di resuscitare i morti. Un'altra ancora è data da riti capaci di conferire ai morti un'esistenza oltretombale, in grado cioè di sconfiggere la morte naturale. Esempi sono le società anti-morte diffuse in Africa e Nord America, o i Misteri Eleusini in Grecia.
Trianello

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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:54 pm

Capitolo 6

RE, ANTENATI E MORTI


I Re carismatici

Abbiamo osservato come la funzione mitica sia quella di garantire la stabilità del cosmo mentre quella rituale presupponga la possibilità di intervenire in un cosmo parzialmente in fieri, non totalmente definito dal mito. La divinazione, poi, anche se in pratica è sempre inserita in sistemi mitico-rituali complessi, potrebbe in linea teorica fare a meno della funzione mitica configurandosi come la possibilità di intervenire volta per volta in un cosmo in divenire. Abbiamo anche visto come alla funzione divinatoria sia collegata sovente una valenza carismatica. Il bravo indovino, lo stregone potente, l'indiano fortunato al gioco, sono dotati di carisma: l'ultimo lo usa normalmente in situazioni di crisi per esercitare le funzioni di guida.
Proviamo a relativizzare queste funzioni, mitica e rituale, a due variabili: lo spazio e il tempo. Il mito stabilisce la loro immutabilità, che equivale a confini territoriali stabili, immutabili, e a un tempo che non porta mai nulla di nuovo, non muta, ovvero ritorna ciclicamente (ad esempio i cicli naturali). Il rito apre la possibilità di agire sullo spazio spostando i confini (ad esempio i riti di guerra) e sul tempo spezzando i cicli naturali: è il rito che stabilisce "quando" va svolta una determinata attività, "quando" un fanciullo diventa adulto. Si pensi ai cicli temporali artificiali come la settimana o alla costruzione dei calendari.
La funzione rituale ha però bisogno di un operatore rituale il quale detenga in sé il carisma, il potere di esercitare questi cambiamenti. In altre parole, la funzione rituale, soprattutto quella divinatoria, potrebbe essere usata per definire il cosmo senza residui mitici a condizione però che ci sia qualcuno che si assuma la responsabilità di queste mutazioni continue, qualcuno in grado con le sue azioni di plasmare continuamente il mondo, di essere garanzia, con la sua persona, dell'ordine di volta in volta stabilito e che si faccia carico dei rischi connessi con quella continua trasgressione che è l'introduzione del nuovo. Naturalmente questa non è una regola: una funzione rituale divisa in molti riti e molti operatori non avrebbe bisogno di un simile carisma. Tuttavia il massimo potere della funzione rituale si otterrebbe quando questa fosse concentrata nelle mani di un unico operatore rituale impegnato in un unico immane rito di trasformazione. A questa esigenza risponde l'istituto dinastico: il re. Occorre ribadirlo: non c'è nessuna necessità logica che le funzioni rituali si concentrino in un solo soggetto attuale. E' solo una possibilità: quando si realizza abbiamo il re.
Il re "crea" il cosmo definendolo mediante lo spazio (il territorio, sempre ampliabile, ove regna) e il tempo (che viene calcolato dalla sua intronizzazione o, per tempi più remoti, sulla base dei regni precedenti, della genealogia del re). In questo modo il re rappresenta il superamento dei limiti fissati dai soggetti mitici. In pratica elementi mitici continueranno a sussistere anche nei sistemi dinastici-regali, tuttavia in sé un sistema regale non ha bisogno di miti e in pratica ha sempre una funzione mitica ridotta.
Storicamente tutto questo si manifesta nell'opposizione tra il primo istituto dinastico, quello del faraone egiziano, e le città templari dell'antico Vicino Oriente. Il re è il demiurgo del cosmo: egli assume in sé la funzione divinatoria di organizzazione del reale e si accolla i rischi delle continue "usurpazioni": violando continuamente il già dato egli lo trasforma con il suo volere. Può farlo in virtù del suo carisma che lo pone a livello super-umano. Questo carisma - usiamo la parola per indicare la qualità super-umana del re - deriva al re dal suo padre e si trasmette in linea genealogico. Di qui l'importanza per il sovrano di definire con esattezza le origini ma anche la necessità di preservare la linea di discendenza da ogni impurità e contatto con la normale umanità: il re sposa solo parenti stretti, l'ideale è sua sorella, e comunque solo figlie di re. Si badi che il re discende dal padre e non nasce genericamente dalla madre: è il padre che genera il figlio; la madre, che pure lo genera naturalmente, è solo un elemento di mediazione. E' questa una scelta culturale che nega deliberatamente la discendenza dalla madre per valorizzare, anzi inventare, una discendenza che non sia quella immediatamente naturale.
Il carisma del re gli consente di assorbire nella sua figura le funzioni (potenziate al massimo) di indovino e di primo operatore rituale. Egli è il re-indovino, il re-operatore rituale, il re-giudice. La funzione giudiziaria, anteriore alla monarchia (come sono anteriori del resto anche quella divinatoria e quella genericamente rituale), viene sempre inglobata dal re. Del resto se la giustizia ha il compito di mettere ordine alle liti dei sudditi, il compito di esercitarla non può spettare che al supremo ordinatore. Il re è anche il sacerdote supremo: il sacerdozio prende forma, e viene istituzionalizzato, a partire dalle funzioni dell'operatore rituale che, come tale, è anteriore alla regalità. Tuttavia con il re, che è l'operatore rituale assoluto, anche il sacerdozio si definisce come una funzione da lui delegata. Per motivi pratici il re finisce infatti per delegare molte delle sue funzioni. Queste vengono esercitate a suo nome ma possono poi diventare autonome con la possibilità di giungere anche a trovarsi in conflitto con il re. Ecco i conflitti tra gli auguri (indovini) romani e il re Tarquinio il superbo; tra i sacerdoti di Aton e Amenofi IV in Egitto; tra i profeti e il monarca in Israele.


Il Primo Re

Un re è tale perché è figlio di re. Ma il primo re? La domanda è irrilevante per assenza di documentazione se intesa in senso assoluto, ha invece significato in senso relativo, ad esempio nel caso di crisi dinastica e di inizio di una nuova dinastia, oppure quando il re viene scelto fra vari pretendenti, tutti discendenti del re morto. In questo caso si può ricorrere o a un mito di fondazione della dinastia (il re consente di operare su una realtà tutta mutabile ma la dinastia è immutabile) che fondi la diversa qualità umana del re e della sua discendenza passata e futura, oppure da un atto divinatorio, o comunque rituale, che scelga, fondi, la nuova dinastia. Naturalmente può anche darsi una divinazione mitica: una dinastia fondata da un atto divinatorio avvenuto nel tempo mitico.
I vari istituti dinastici realizzati nella storia hanno percorso praticamente tutte le alternative. Osserviamo la definizione dell'istituto dinastico nella nostra cultura come è presentata nell'Antico Testamento. Nella storia ebraica un mago dotato di grande carisma (Samuele) cede il potere carismatico al primo re (Saul). Il carisma di Samuele è espresso in vari modi e più volte sottolineato (nascita prodigiosa da una donna sterile; consacrato a Dio presso il gran sacerdote Eli; parla con Dio; dopo la caduta di Eli - lo "sfortunato" Eli - prende il suo posto prestigioso): egli "indovina" il comportamento giusto, ha potere perché è dotato di carisma. Diviene giudice, cioè quasi-re, ed è inoltre profeta (nabi, cioè indovino). Poiché il popolo vuole un re Samuele per divinazione (sorteggio) sceglie Saul. Questi come primo re non ha un padre da cui ereditare il carisma del potere: la tradizione ebraica sceglie allora di farglielo derivare per divinazione, divinazione eseguita da un uomo, Samuele, che però non è certo un semplice uomo. Del resto, come se non bastasse, la divinazione per sorteggio era stata preceduta da una divinazione divina. Preavvisato da Dio, Samuele unge Saul giunto alla sua casa mentre inseguiva le asine paterne: in questo modo Saul acquista il potere carismatico dei profeti, diviene nabi. E' come se, in assenza di un padre-re, per fare il primo re occorra una doppia divinazione. Doppia divinazione che, peraltro, non basta: anziché fondato, infatti, l'istituto dinastico ebraico ne esce screditato. Nell'Antico Testamento Dio assume direttamente, senza bisogno di re umani, le funzioni di ordinatore e creatore dell'universo e di guida di Israele: ostile alla monarchia, Yahvè è Lui stesso Re.


Discendenza e Antenati

Il rapporto con i morti, e solo con certi morti, è essenziale per il re poiché egli ha la necessità di dissociarsi dal resto dei gruppi umani che costituiscono la sua comunità. Il re è tale poiché è estraneo ai normali rapporti di parentela che caratterizzano tutti gli altri individui. Il ripudio del sistema parentelare è quello che gli consente di operare a livelli diversi da quelli, ad esempio, dell'organizzazione clanica. Il re non è definito da un clan né dal rapporto con altri uomini vivi ma da un particolare lignaggio, da una dinastia, dal rapporto che lo lega ai suoi morti, al re-padre morto e a tutti i suoi predecessori. Morti, dunque, invece che vivi. E' in questa costruzione parentelare del tutto particolare, con i morti, che si forma l'istituto del culto degli antenati, realizzato mediante un particolare sistema di riconoscimento di alcuni parenti morti del re. La dinastia rende necessario il riconoscimento degli antenati e questo riconoscimento, ritualizzato, forma il culto degli antenati.
Ciò significa che in sé l'istituto dinastico si è formato contro l'istituto del sistema di parentela. Interpretando la parentela come un fatto culturale e non naturale non c'è alcuna necessità di intendere i morti come elementi necessari del sistema di parentela. Questo può benissimo essere espresso, sul piano logico, senza alcun riferimento agli antenati e alle ricostruzioni genealogiche. Nessuna delle funzioni espresse dal sistema di parentela - creare legami tra gruppi, costruire la base del sistema sociale, individuare il singolo in rapporto agli altri vivi - necessita logicamente di un rapporto con i morti. Si può ad esempio ricorrere a discendenze genealogiche con eroi (che sono cosa diversa dagli antenati) o mediante classificazioni simboliche di vario tipo. Tutte le funzioni di associazione di gruppi, svolte dal sistema di parentela, possono essere svolte prescindendo totalmente da ogni collegamento con i morti.
Il legame dinastia-culto degli antenati è necessario invece solo per le esigenze del sistema dinastico. Questo non esclude però che il culto degli antenati possa poi rendersi indipendente ed estendersi ad altri gruppi. O meglio, altri gruppi potrebbero appropriarsi di questo modello culturale rendendolo indipendente dall'istituto dinastico. Appropriazione che potrebbe essere utilizzata anche per negare il modello genealogico-dinastico del re ed opporvisi. E' quanto è accaduto in Egitto con l'usurpazione, da parte delle classi superiori, di molti privilegi tratti proprio dal principio dinastico faraonico: eredità delle cariche e osirizzazione dei morti. La divinizzazione del faraone era espressa identificando il faraone vivente con il dio Horus e il faraone padre morto con il dio Osiride. L'immortalità di Osiride era il fondamento dell'immortalità del faraone padre morto e quindi del suo legame dinastico con il faraone vivo. Era proprio perché il padre morendo non scompariva definitivamente come tutti ma rimaneva vivo come Osiride che il faraone manteneva il suo potere: il legame con il padre non scompare essendo, il padre, immortale. Appropriandosi dell'osiridazione, cioè di quell'immortalità dopo la morte propria di Osiride, le classi elevate si garantivano insieme una vita dopo la morte e l'ereditarietà delle cariche. Di qui l'importanza per queste classi del legame con gli antenati in funzione antimonarchica.
A partire dall'istituto monarchico la ricostruzione delle genealogie si è diffusa di fatto a vari livelli. La generalizzazione a vari strati sociali, e potenzialmente a tutti gli uomini, delle esigenze connesse con l'istituto dinastico implica la perdita delle funzioni originarie, quelle di fondazione della monarchia, ma non di ogni funzione: semplicemente se ne aggiungono di nuove. Ad esempio la ricostruzione genealogica può divenire parte essenziale del sistema di parentela ed assorbire alcune delle funzioni di questo; oppure può avere conseguenze nella direzione di elaborare una nozione di immortalità, di vita dopo la morte, fondamentale per definire in modo nuovo il valore dell'identità personale.


La nascita dell'immortalità

E' possibile che tutti i sistemi di culto degli antenati o di ricostruzione genealogica, diffusissimi nel mondo, abbiano avuto origine storica a partire dagli istituti dinastici. La questione naturalmente non è l'elaborazione di una storia congetturale su come dall'istituto del faraone abbiano avuto origine i culti degli antenati, poniamo, cinesi. Il problema è interpretare il rapporto con i morti in termini diversi dal problema dell'immortalità dell'anima. A lungo invece il culto degli antenati è stato collegato proprio con il problema dell'immortalità, come se tutte le culture che stabiliscono un rapporto con i morti lo abbiano fatto in risposta all'esigenza di proteggersi dalla paura della morte, come se la questione principale per tutti gli uomini fosse di garantirsi una certezza di immortalità personale.
In senso stretto ciò che occorre per avere una dinastia, indipendentemente dal fatto che questa sia regale o di un individuo qualsiasi, è l'accertamento dell'esistenza di determinati antenati (in genere alcuni ascendenti maschi) e il riconoscimento del rapporto con questi antenati. Non si tratta ancora di un culto ma di una presa d'atto che ha lo scopo di individuare la persona che la opera e di qualificarla come discendente di certe persone. Il riconoscimento può poi anche avvenire in forme ritualizzate e realizzare così il culto degli antenati: in questo caso il rito da una parte definisce gli antenati come esseri sovraumani e attribuisce loro determinate caratteristiche per simbolizzare determinati aspetti della realtà (quelli appunto controllati e definiti dagli antenati), dall'altra consentirà di agire sulla realtà trasformandola. Il culto viene rivolto, cioè, a dei morti (e solo alcuni) considerati esseri sovrumani, e questo avviene nell'interesse dei vivi. Non possiamo pertanto, nelle nostre interpretazioni, partire dai morti e spiegare la loro condizione e il loro potere; al contrario occorre partire dai vivi per comprendere le motivazioni che li spingono a intraprendere la ricostruzione delle linee genealogiche e poi ad attribuire a certi morti una particolare funzione rituale. Si badi, infatti, che non tutti i morti sono importanti ma solo quelli che interessano ai vivi. Il problema non è perché (e a quali condizioni) i morti aiutano i vivi ma perché i vivi scelgono i morti (alcuni di loro) per le loro esigenze pratiche, terrene, di cosmicizzazione.
Certo al culto dei morti è collegata l'idea della sopravvivenza dopo la morte. Possiamo dire che questa idea dell'immortalità sia stata introdotta nella storia proprio dal culto degli antenati. Nel culto degli antenati la sopravvivenza è collegata ai lignaggi: perché un lignaggio formato da tanti morti e da un solo vivente possa riprodurre la solidarietà di un gruppo clanico (e sostituirla a vantaggio, ad esempio, del re) è necessario che il vivente istituisca un rapporto solidale con quelli che ritiene i propri morti mediante il culto e che quei morti non scompaiano dalla realtà attuale ma sopravvivano alla morte temporale.
E' il culto che presuppone l'immortalità dopo la morte e non il semplice riconoscimento di una linea genealogica. E' possibile cioè avere necessità di ricostruire una linea dinastica con dei morti (ad esempio per questioni ereditarie) senza che ciò comporti la necessità di dover stabilire alcun culto con quei morti. Una semplice ricognizione pertanto non basta a far sorgere l'idea dell'immortalità: occorre stabilire un culto ed è anzi il culto che fa l'antenato immortale. Questo significa che l'escatologia che è connessa con il culto degli antenati è prodotta dal culto stesso e non deriva dal problema generico: "che succede dopo la morte?". La paura della morte non è infatti una generica paura umana. Occorre distinguere la paura psicologica dalla paura culturale: un conto è il cosiddetto istinto di conservazione, un sentimento naturale che ci porta a fuggire i pericoli, e un altro una cultura che insegni ad aver paura della morte, anzi a dover aver paura della morte. In questo caso avremo un valore culturale. Valore che può essere anche rovesciato: una cultura che insegni a non aver paura della morte.
A questo punto le domande che dobbiamo porci davanti ad una cultura che pratica il culto degli antenati o comunque che attribuisce un valore ai morti sono: quale potere e perché viene attribuito ai morti? Come si inserisce questo potere nel sistema di valori che caratterizzano una certa cultura? Che vantaggio i vivi traggono dal culto dei morti (o dalla paura del loro ritorno)?


Morti buoni e cattivi

I morti esistono dunque soltanto per i vivi: sono i vivi a dar vita ai morti per le loro esigenze. I morti possono esistere come esseri ben identificati (gli antenati) con i quali stabilire un rapporto che, se corretto, va a tutto vantaggio dei vivi; oppure possono essere considerati, collettivamente al fine di significare l'extraumano negativo, il male. E' il pericolo del "ritorno dei morti" inteso come ritorno irrelato di ciò che è passato per sempre e che ora minaccia di travolgere, rendendola morta, ogni forma culturale. Questi morti sono minacciosi, fanno paura.
Questo equivale a dire che una cultura insegnerà ad avere paura dei morti utilizzando proprio i morti (e non altri) per simbolizzare il rischio dell'annullamento totale dei valori insito nell'agire umano. Nulla infatti è garantito per sempre e un ombra di precarietà accompagna i momenti dell'esistenza. Per quanto una società operi e costruisca valori, umanizzando una natura in sé caotica e insignificante, il suo agire è sempre garantito solo in parte. Da un momento all'altro nemici incontrollati, calamità inattese, eventi inaspettati e imprevedibili (invasioni, epidemie, disastri naturali ...) possono rendere vani tutti questi sforzi. Una sorta di spada di Damocle pende sulla testa di ogni comunità: per simbolizzare questo rischio di annicchilimento che ogni cultura corre possono essere scelti i morti. Ma simbolizzare il rischio è anche un modo per controllarlo, per fargli acquisire un significato agli occhi degli uomini, trasformarlo da rischio irrelato in rischio calcolato al quale gli uomini possono adeguatamente porre rimedio.
Tutti i pericoli concreti ma incontrollabili (anzi indicibili nella loro imprevedibilità), vengono significati, "detti", con il pericolo del ritorno incontrollato dei morti. Ma un pericolo potenziale non è ancora un fatto reale: i morti possono ritornare ma qualora si riuscisse a farli tornare solo entro certe forme precise il rischio sarebbe eliminato. Ecco allora che i morti ritornano ma solo in un periodo determinato dell'anno e per un tempo ben preciso; essi non torneranno in modo incontrollato ma per ricevere una serie di riti (esempio: offerte di cibo) che ne placheranno la furia distruttiva. Poi torneranno indietro al loro mondo lontano e i vivi saranno liberi di svolgere ancora una volta le loro normali occupazioni.
Dato un orizzonte all'angoscia della fine e dati gli strumenti per definire quest'orizzonte, si aprono nuovamente gli spazi per la concreta, quotidiana, azione umana. Davanti al pericolo di una "fine del mondo" nella quale siano abolite le distanze vivi-morti, è possibile premunirsi con adeguate contromisure mitiche e rituali. Esempio frequente è il rito che trasforma un morto malevolo in antenato benevolo: elimina la naturalità insita nella morte e culturalizza il morto in antenato. Si badi che il simbolo che costruisce la possibilità del ritorno collettivo dei morti non costruisce affatto anche il tema dell'immortalità dell'anima. I morti che ritornano sono un gruppo anonimo e confuso, indeterminato. Il problema che dobbiamo porci di fronte alla rappresentazione del ritorno dei morti non è se un vivo rimane immortale dopo la morte ma quali siano i pericoli esistenziali che si vuole rappresentare mediante la ritualizzazione di questo ritorno collettivo.


Immortalità e salvezza dalla morte

L'escatologia connessa con il culto degli antenati ha la funzione di stabilire un legame morti-vivi tale che i primi aiutino i secondi nelle loro esigenze mondane. La funzione dei morti è di offrire ai vivi una salvezza del tutto immanente. Vi è però, in alcune culture, anche la ricerca di una salvezza diversa, trascendente. La salvezza della vita dopo la morte. Questa ricerca è caratteristica del Cristianesimo, dell'Islam e del Buddhismo. In questa sede possiamo prescindere dall'Islam, il cui sviluppo è legato a quello del Cristianesimo e che da questo deriva. La salvezza cristiana è una salvezza positiva, è la salvezza dalla morte intesa come salvezza dalla morte eterna: la morte fisica non è la fine di tutto ma l'inizio di una vita eterna. Da parte sua il Buddhismo offre invece una salvezza negativa: la sua salvezza è la fine del ciclo delle reincarnazioni, la realizzazione di una non-esistenza nel Nirvana (ni- prefisso negativo), la morte eterna e la fine delle rinascite.
La salvezza del Cristianesimo è dunque il frutto di una storia originale e rivoluzionaria rispetto alle culture precedenti. Esaminiamo i due monoteismi dell'area medio-orientale. Il mazdeismo iranico, almeno sino al contatto-scontro con l'Islam, propone una salvezza tutta mondana con un "salvatore" che è colui che officia il rito di "Salvezza del mondo" il cui scopo è la rinascita, il rinnovamento, del reale. Per quanto riguarda Israele non è certo che i primi libri dell'Antico Testamento, almeno sino al Deuteronomio, presentino un'esplicita escatologia salvifica, comprendente una nozione dell'immortalità individuale. Nel periodo post-esiliaco vi sono nei Profeti dichiarazioni riguardo una Resurrezione futura. Non è chiaro però se questa Resurrezione sia individuale o si riferisca al complesso del popolo di Israele. Con il secondo libro dei Maccabei abbiamo una escatologia salvifica in senso cristiano ma si tratta di testi scritti in epoca vicina al Cristianesimo stesso. Tuttavia se è vero che il Cristianesimo appare il solo a proporre esplicitamente una escatologia individuale salvifica, è anche vero che esso nasce in un ambiente che è ricco di dottrine soteriologiche, soprattutto nella forma misterica. La crisi del mondo antico genera una funzione misterica intesa come rifiuto del mondo (naturalmente non del mondo in astratto ma di quel mondo romano-ellenistico ormai in crisi) e una funzione soteriologica intesa come salvezza in un mondo a venire (escatologia).
Sotto questo aspetto elementi misterici sono presenti nel primo Cristianesimo: si pensi al Regno dei cieli, alla Passione, Morte e Resurrezione. Nei Vangeli sinottici il termine "mistero" è usato per indicare il modo che ha il Cristianesimo di intendere il Regno futuro e di operare per giungervi. I Cristiani sono gli iniziati (mysteria) a questa sapienza. Inizialmente dunque il Cristianesimo è un mistero: in seguito opponendosi e confrontandosi con l'Impero Romano si definisce però come religione. Questo passaggio ha arricchito il Cristianesimo di una diversa dimensione salvifica rispetto all'elemento misterico iniziale: il messaggio salvifico ultraterreno è rimasto intatto ma ad esso si aggiunge anche una salvezza relativa, mondana, storica. E' lecito pregare Dio per la salvezza dell'anima ma anche per il "pane quotidiano".
Similmente il Buddhismo, nel suo sviluppo storico ricco di sincretismi, aggiunge alla salvezza assoluta nel nulla del Nirvana anche una salvezza terrena, corporale. Stesso discorso per l'Islam, nel quale i due livelli di salvezza sono strettamente legati sin dall'inizio. Le tre religioni salvifiche a livello universale relativizzano la loro salvezza anche al livello terreno, temporale. Ciò è inevitabile per certi versi, in quanto tutte e tre, pur presentando una salvezza assoluta, non possono non essere anche legate a elementi culturali concreti.


Istituto regale e coscienza storica

Attribuire ad un uomo, il re, la facoltà di agire a livello cosmologico come un soggetto mitico, ha pesanti conseguenze culturali. Si tratta anzi di una vera rivoluzione che ha per oggetto l'avvento della storia. La sostituzione della documentazione dell'azione regale (narrazioni delle conquiste del sovrano, esaltazioni delle sue opere, ricordi della sua presenza, iscrizioni monumentali, elenchi dei suoi avi) alla documentazione mitica dell'origine e della progressiva definizione dell'ordine cosmico, porta infatti come conseguenza di sapere "chi" è il re e "cosa ha fatto". Domande che rimangono sul piano storico e alle quali si risponde narrando le azioni del re e non raccontando miti.
L'usurpazione e l'espansione ad altri livelli dell'ideologia della "generazione regale" rafforza ulteriormente questa coscienza. Riassumiamo gli elementi di questa ideologia della generazione regale: il lignaggio del re è inteso come clan ideale; il culto degli antenati rappresenta il rapporto ideale con i membri morti del proprio lignaggio maschile; la discendenza patrilineare significa il distacco dalla comune discendenza mondana femminile; l'escatologia è intesa come superamento della morte storica. Una serie di usurpazioni portano alla generalizzazione delle funzioni regali: la generalizzazione di queste funzioni in potenza a tutti gli individui equivale ad una moltiplicazione di re, fino a giungere al cittadino provvisto di diritti regali e al popolo sovrano.
Il legame ideale con i morti, dal quale il re derivava le sue prerogative, contribuisce all'acquisizione di una personalità giuridica, come persona dotata di diritti inviolabili, consapevole, e capace di operare per il proprio futuro. La possibilità di ricostruire le linee genealogiche si traduce nella possibilità di garantire le successioni ereditarie e il diritto di proprietà. Padrone del proprio territorio l'individuo è il padrone di sé. L'escatologia, inizialmente legata all'immortalità del padre del re, garantisce la coscienza storica dai rischi di un disorientamento dopo la cessazione dell'orientamento mitico. Nulla è più garantito dal mito e tutto è possibile: il nuovo padrone di sé potrebbe commettere errori ma nulla è definitivo e questa vita, imperfetta, non è l'unica. Invece che dal "prima" mitico si è orientati dal "poi" escatologico. La demitizzazione, realizzata con la sostituzione di ogni soggetto mitico con un soggetto storico, si traduce in una acquisizione della coscienza storica.
Naturalmente non vi era necessità alcuna che il processo di demitizzazione fosse portato sino alle estreme conseguenze, né questa trasformazione è avvenuta ovunque. Era solo una possibilità: si è realizzata nella cultura occidentale.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:55 pm

Capitolo 7

FUNZIONI DEL SIMBOLISMO RELIGIOSO


I simboli collettivi

La creatività del simbolismo mitico-rituale avviene sempre a livello inconsapevole. Non si tratta mai, nell'elaborazione di questi simboli, di sforzi coscienti indirizzati ad uno scopo esplicito. Dal punto di vista dei soggetti partecipi questi simboli si impongono come veri prima, e al di là, di ogni razionalizzazione. Non dobbiamo immaginare l'invenzione dei simboli come la risposta cosciente di gruppi umani che, tramite questi simboli, "tenderebbero a ..." oppure si "sforzerebbero di ..." raggiungere questo o quello scopo. Essi agiscono a livello inconscio e sono prima di ogni razionalizzazione: in questo senso essi sono irrazionali (anche se naturalmente la loro razionalità può poi essere ricompresa dallo storico delle religioni). Anche nel caso di fondatori di nuovi messaggi religiosi, i nuovi simboli si diffondono solo se vengono incontro alle esigenze e necessità dei gruppi che li accolgono, esigenze e necessità profonde e pre-razionali dal punto di vista dei soggetti che ne sono portatori. Sul piano culturale non esistono simboli che siano solo individuali, che abbiano valore solo per un individuo e per nessun altro. Solo se assunto da altri il nuovo messaggio da origine a nuove istituzioni e riti. Abbiamo cioè a che fare con un fatto collettivo e sociale.
Questi simboli inconsci hanno certo una causa e una spiegazione razionali ma si tratta di cause e spiegazioni che sfuggono al soggetto coinvolto in quanto egli non può fare a meno, pena l'annullamento del simbolo stesso, di prendere con serietà i gesti rituali o i racconti mitici. O meglio, non può fare a meno di prendere con serietà questi simboli almeno sino a quando essi hanno valore per altre persone. Qualora un individuo prendesse piena coscienza della origine umana, storica, di un simbolo non seguirebbe automaticamente la vanificazione del simbolo stesso, almeno sino a quando questo simbolo continua a possedere un valore ufficiale per gli altri: da tempo si riconosce che le norme giuridiche hanno origine umana e non divina ma anche se un individuo volesse contestarle assolutamente, ad esempio attribuendo alla giustizia una funzione di classe, nondimeno dovrebbe poi fare i conti con una eventuale sentenza di condanna. Naturalmente tutto questo significa solo che gran parte della nostra cultura è per noi un dato scontato, sul quale non esercitiamo continuamente una analisi critica distruttiva e che non mettiamo continuamente e coscientemente in causa. Abbiamo a che fare con meccanismi di proiezione e oggettivizzazione dei bisogni che sono alla base di tutta la produzione simbolica collettiva. Il carattere inconscio dei simboli, pertanto, più e oltre che una valenza psicologica, indica una valenza collettiva.
Narrazioni mitiche, storie di dei, azioni rituali, norme etiche di comportamento, divieti e interdizioni costituiscono un universo simbolico che rappresenta l'intervento regolatore dell'uomo per dotare di senso la realtà non umana. Porsi limiti rigorosi, vietarsi ad esempio, cibi, luoghi, donne, tempi, significa imporre al mondo neutro della natura, al caso, al contingente, un ordinamento umano, e nel contempo garantirsi la certezza di agire secondo dovere.
Si costruisce così il senso di ciò che è umano in opposto alla materia bruta, il campo di azione lecito agli uomini. La realtà, in sé caotica, disorganizzata, imprevedibile, insensata e pericolosa, viene organizzata mediante l'attribuzione di significati simbolici che distinguono, selezionano, stabiliscono punti fissi di riferimento. Individuato il campo del lecito, distinto da quello dell'illecito, l'attività umana può dispiegarsi entro i limiti ristretti ma sicuri dell'ordine simbolico.
L'attribuzione dei simboli è inconscia, non avviene, se non raramente e parzialmente, a livello cosciente. Ciascun uomo nasce all'interno di un universo simbolico prefissato - si pensi a quel potente sistema simbolico che è il linguaggio - base di valore per le sue azioni, che gli consente di orientarsi nel mondo. Tradizioni, usi e costumi, modi di comportamento, espressioni, tutto costruisce un universo di simboli che, per certi versi sono arbitrari. Essi sono prodotti culturali e come tali non hanno necessità naturale. Nessuna necessità naturale stabilisce il diverso valore riservato all'uso della mano destra e di quella sinistra in alcune culture islamiche, né che occorre riposarsi la domenica. Questi simboli sono posti dalla cultura. Arbitrari rispetto alla natura (sono elaborati proprio per mettere ordine nella natura e dotarla di significato) non sono però privi di logica e di necessità in assoluto. La logica è quella alla base di ciascun sistema simbolico e che lo caratterizza come un sistema organico nel quale qualunque simbolo è collegato a tutti gli altri da una trama di relazioni. Lo strutturalismo mostra proprio come questo sistema sia organizzato secondo regole e come sconvolgere una sezione comporta mutamenti in tutte le altre. La necessità è invece quella storica. La cultura, come strumento che si è dato l'uomo per rispondere a certi bisogni, è un prodotto della libertà umana ma questo non equivale a dire che è frutto del caso o dell'arbitrio.


La presenza minacciata

La capacità che ciascuno possiede di essere presente al mondo, di agire con consapevolezza nell'ambiente e di mantenere adeguati rapporti sociali, ciò che possiamo definire "presenza", non è una realtà definita una volta per tutte, un bene scontato e naturale, ma una conquista quotidiana, un impegno energico di azione e trasformazione del mondo. Questo impegno trasforma la materia in valore, i bisogni in norme di comportamento, le possibilità in azioni, ciò che è semplicemente dato in voluto, prodotto della volontà. Quest'impegno consente la vita comunitaria, lo sforzo collettivo, la produzione, il sostentamento il benessere della vita intesa come valore comune. La presenza è la depositaria della forza morale (o meglio, è questa stessa forza) che continuamente costruisce e ricostruisce, superando ostacoli ed abbattimenti, qualificando come umana la vita dell'uomo.
Questa presenza è però continuamente minacciata, instabile, esposta perennemente al rischio di essere travolta. La capacità dell'uomo di essere soggetto del suo agire e non mero oggetto animato, centro di azione e non cosa, in altre parole quello che abbiamo definito presenza, può ogni momento smarrirsi davanti agli ostacoli e alle difficoltà, perdere la sua forza morale, ripiegarsi in se stessa e smarrirsi. In questo caso l'uomo smetterebbe di essere uomo, la capacità di donare significati, di intendere positivamente e di agire con criterio verrebbe meno e l'individuo sprofonderebbe nel caos dell'insignificanza. Sarebbe, qualora questo si verificasse, una apocalisse culturale, i cui effetti possono essere esemplificati da una serie di patologie psichiatriche quali alcune schizofrenie, la catatonia ed altre nelle quali il soggetto si smarrisce come centro propulsore del reale. Naturalmente esiste una distanza tra il piano individuale e clinico e il piano collettivo e culturale. Tuttavia le conseguenze dell'esperienza drammatica della deculturalizzazione rapida e violenta subita da alcuni popoli a causa del colonialismo testimonia che la similitudine non è inappropriata. Il mutismo, la passività estrema accompagnata a scoppi di violenza irrazionale, l'alcolismo, l'incapacità di agire, sono il risultato di un crollo della presenza di fronte all'impossibilità di continuare a dare un senso all'esistenza.
Il dramma della fine del mondo, avvenuto tutte le volte che nella storia una cultura si è annichilita (ma anche ogni volta che un singolo uomo, sotto la pressione della realtà ostile, perde "il bene dell'intelletto") mostra quanto sia preziosa la carica morale trasformatrice della presenza ma anche quanto questa sia fragile.
Una delle funzioni della trama simbolica che costituisce la cultura è allora quella di realizzare attorno alla presenza una sorta di rete di protezione, consentendole di scaricare in forme culturalmente accettate (anziché nella pazzia o in comportamenti distruttivi) la tensione accumulata, e di dare sfogo significativo al mostruoso, all'inatteso, all'irrazionale, all'insignificante.
Naturalmente il simbolismo culturale non può prevedere, e mettere riparo, a tutte le possibili forme di crisi individuale e di nevrosi. L'aspetto particolare e individuale ricadrà nel campo d'azione del clinico e sarà di competenza dello psichiatra (o del curatore). Vi sono però in una cultura rischi che riguardano tutti. Che uno stia male è un fatto personale ma la possibilità di star male riguarda tutti. Così la morte, propria e dei cari. O, ancora, il rischio di non sopravvivere fino all'anno successivo se il raccolto va male. Si tratta di rischi che interessano tutti, che coinvolgono tutti e che possono provocare con la loro stessa possibilità, ancora prima di realizzarsi effettivamente, un crollo morale, un pericoloso e irrecuperabile abbassamento di tensione. Se mi lascio abbattere dalla consapevolezza che morirò semplicemente smetto di essere un uomo ancora prima di morire.
Contro questi rischi la cultura da una parte cerca di provvedere elaborando tutti gli strumenti tecnici per controllare gli eventi, dall'altra costruendo un sistema simbolico di prevenzione. La crisi viene anticipata ritualmente e risolta sul piano destorificato ancora prima che si manifesti, oppure viene affrontata secondo procedure accreditate socialmente e definite che consentano di incanalarla su binari tali da evitare un travolgimento totale, da consentire prima o poi un recupero. Si tratta dello sforzo che un gruppo compie per proteggersi da ciò che non può dominare con altri strumenti, lo sforzo per dare senso e significato a ciò che è neutralmente indifferente. Anticipate e controllate ritualmente nel loro svolgimento le crisi vengono risolte in modo accettabile, tale da garantire alla presenza di recuperare la sua forza morale.
In questo modo il simbolismo mitico e rituale con la sua funzione destorificante libera e favorisce l'attività quotidiana su cui si fonda l'esistenza umana. Concentrando e personificando, ad esempio, in esseri sovraumani ciò che nella realtà in cui si vive apparirebbe come incontrollabile, e stabilendo con questi esseri un rapporto mediante il culto, l'uomo risolve problemi che altrimenti continuerebbero a rimanergli addosso in ogni momento. Scaricando le sue preoccupazioni sugli esseri sovraumani le destorifica e riducendo le sue angosce di fronte all'incontrollabile al gesto rituale di rendere un culto l'uomo può dedicare il resto delle sue energie alle attività vitali.


Natura e Cultura

L' uomo è tale nella misura in cui dona ordine ad una natura che non ne possiede, nella misura in cui umanizza con la sua azione una natura ostile e nemica. Questo, naturalmente, non significa pensare che la natura sia solo una materia indifferenziata né equivale ad attribuire alla natura una funzione moralmente negativa. Il problema, cioè, non è la realtà della natura in sé, il suo status ontologico o le sue valenze morali. Quando opponiamo la natura alla cultura non dobbiamo pensare al nostro modello di natura, a ciò che, sull'onda delle emozioni ecologiste, pensiamo noi della natura; in gioco non è la realtà fisica e chimica, la vita, la catena alimentare. Quello che intendiamo noi per natura è già infatti il risultato di un modo di pensare: è come vediamo noi la natura, che può essere diverso da come la vedono in altre culture.
La natura è intesa come il pre-umano, il caos insensato, ciò da cui l'uomo deve staccarsi e che deve dominare attraverso l'attribuzione di significati. La cultura è questo distacco e questa attribuzione. Nell'opposizione natura/cultura, pertanto, non intendiamo significare categorie universali o realtà assolute ma i poli di una dialettica che ciascuna cultura esprime a modo proprio. Mediante questa dialettica ogni cultura si realizza, si afferma e si differenzia sia dalla "natura" sia da ogni altra "cultura". Questi poli hanno dunque senso insieme, nella loro reciproca opposizione, identificando ciascuno un aspetto che ha valore solo in apposizione all'altro. Ogni distinzione oggettiva, assoluta, "scientifica" tra i due piani è insignificante. Immaginiamo ad esempio di voler distinguere i due livelli interpretando la natura come il livello biologico dell'uomo e la cultura come il suo livello sociologico. Questa distinzione salta appena la confrontiamo con la realtà di molte popolazioni presso le quali è proprio ciò che è una facoltà biologica, la facoltà di generare, a costituire il fondamento della realtà culturale: si pensi ai complessi culturali basati sugli antenati.
Inoltre anche all'interno di una stessa cultura l'opposizione natura/cultura si ripropone a vari livelli relativi ai diversi stati sociali, ai punti di vista, ai livelli di realtà. Ad esempio ciò che costituisce il livello culturale della maggioranza, il rapporto con gli antenati (in opposizione alla natura: gli animali non hanno antenati), può diventare il livello naturale al quale opporsi per costruire una diversità culturale da parte di alcuni individui particolari (ad esempio sacerdoti che stabiliscono la propria identità superando la normalità e collegandosi con l'animale mitico).
Per naturale possiamo intendere ciò che è semplicemente "dato". Analogamente per culturale possiamo intendere ciò che è "voluto". Il simbolismo, in particolare quello rituale, agisce su un materiale dato per trasformarlo e conseguire un effetto voluto. Anche il mito ha la funzione di dare ordine alla natura, tuttavia, fondando ciò che è immutabile, fonda ciò che una cultura ha "voluto" intendere come permanentemente "dato". Quando questo dato permanente viene posto in discussione (è ad esempio il caso delle rivoluzioni antigentilizie nella Grecia classica che hanno rifiutato i sistemi politici basati sulla discendenza genetica del potere), esso si trasforma in un dato naturale negativo, da rifiutare. Il mito che fondava l'ordinamento politico gentilizio, quando quell'ordinamento viene travolto, diventa un mito senza sbocco, che non fonda nulla o meglio che fonda una realtà da rifiutare.


Scrivere il mondo

Il ruolo dei simboli, come abbiamo visto, è principalmente quello di mettere ordine nel mondo costruendo un cosmo ordinato (kosmos in greco significa ordine), una realtà comprensibile, significativa per l'uomo. Si tratta di definire e di dare significato all'universo. Di scrivere il mondo nei suoi vari aspetti al fine di renderlo comprensibile all'uomo e dunque di renderlo culturalmente controllabile. Il modo in cui questi simboli, tutti, si organizzano dipende dalla storia di ciascun popolo. Tuttavia si tratta di organizzazioni del cosmo umano e naturale non casuali e capricciose. "Si crede in ciò in cui si ha bisogno di credere" che significa: si disegna un universo di significati nel modo in cui si ha bisogno di disegnarlo. Questo bisogno è condizionato dalle concrete condizioni dell'esistenza di una società, che a loro volta sono determinare storicamente. Quei fattori che identifichiamo come mitici e rituali si esprimono secondo un linguaggio simbolico che può essere ricostruito e che rinvia all’intero sistema logico della cultura che li ha prodotti.
Salvare la presenza è possibile soltanto se il mondo che ci circonda continua ad avere un senso, continua a rimanere aperto al nostro agire. Possiamo dire perciò che il ruolo che le funzioni mitiche e rituali svolgono è, in sintesi, quello di cosmicizzare il mondo, attribuendo senso, valore, grado di realtà alle cose. Queste funzioni disegnano il mondo, lo inquadrano, lo scrivono, gli danno il senso che l'uomo vuole che abbia. Costituiscono i valori, le norme dell'agire; costituiscono ciò che è vero e ciò che è falso e i criteri per giudicare; costituiscono i modi di pensare la realtà e, pertanto, la realtà stessa, in altre parole cosmicizzano.
Queste funzioni mitico-rituali sono le uniche? In parte abbiamo già risposto nel capitolo precedente. Proviamo qui a suggerire alcune possibilità, accennando alle principali categorie di cosmicizzazione della nostra cultura.
Nella nostra cultura la funzione mitica è screditata, anche se più usata di quanto ci piacerebbe pensare. Quella rituale è ancora molto attiva e svolge un ruolo importante nel campo del diritto. Sovente sottovalutiamo il ruolo del diritto nella definizione, ad esempio, della nostra realtà sociale. Ad un’altro livello una funzione simile hanno le norme etiche. Una funzione di cosmicizzazione hanno certamente le scienze, soprattutto quelle naturali. Sono esse che definiscono "la realtà naturale" e giustificano gli strumenti - la tecnologia - usati per agire su essa. Naturalmente la scienza stessa non è un universale ma un prodotto peculiare della nostra cultura, almeno a partire dal XVI secolo. Si potrebbe poi citare la geografia, che offre le coordinate spaziali per inquadrare qualsiasi evento. O ancora quell'altra forma culturale che è la filosofia, inteso come pensiero critico e strumento di sintesi delle conoscenze.
Parlare del ruolo della scienza e della geografia può sembrare singolare in un trattato che pretende di definirsi storico-religioso. Lo è solo se non riusciamo a liberarci dai pregiudizi per i quali la Storia delle religioni dovrebbe occuparsi solo di quella cosa che è la "religione". Si è visto nel primo capitolo come stanno le cose. Accanto a scienza, geografia e diritto non abbiamo citato ancora il modo di cosmicizzare, di intendere la realtà, più importante nella nostra cultura: la storia. Per noi un fatto è vero solo se è un fatto storico. Con la storia ci riavviciniamo alla Storia delle religioni. E se avremo perso qualcosa dell'oggetto di questa disciplina (la religione, appunto) non sarà un gran danno a patto di aver guadagnato qualcosa in consapevolezza.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 5:56 pm

Capitolo 8

IL TEMPO DELLA STORIA


L'uomo storico

Il comune denominatore dei simboli di cui ci siamo occupati è dato dal particolare sforzo creativo con il quale le varie culture tendono ad acquisire il controllo di quanto sembra sfuggire, nella concreta esperienza esistenziale, ad ogni altro mezzo di controllo. Tutto quanto nel reale non è oggetto di diretto controllo tecnico viene controllato simbolicamente. Tramite questo controllo simbolico si riconduce all'uomo ciò che è tecnicamente incontrollabile investendolo di valori umani e attribuendogli un significato. Vengono così giustificati, resi accettabili e possibili tutti quegli sforzi indispensabili all'esistenza. Ed in realtà, anzi, il piano del controllo tecnico del reale e il piano del controllo simbolico si intersecano e si fondono al punto che in effetti le azioni tecniche sono possibili soltanto in un quadro simbolico che fornisca loro giustificazione morale e motivazione, che doni loro un significato. Nessuna azione è per l'uomo una semplice azione pratica, tecnica: tutte comportano un valore simbolico, significano qualcosa. Questo valore simbolico non è separabile dall'azione concreta come se si trattasse di un qualcosa in più, di una aggiunta di cui si potrebbe fare a meno. E' il significato che vi proiettiamo a rendere una qualsiasi azione pratica un'azione dell'uomo.
Ciò che ha segnato il distacco dell'uomo dal resto degli animali, ciò che lo qualifica come uomo, è stata la produzione della cultura, cioè dei sistemi simbolici, quale strumento di adattamento all'ambiente. E' la cultura l'elemento che contraddistingue l'uomo e lo contrappone alle altre specie animali e al complesso della "natura" nella quale, tuttavia, rischia di precipitare nuovamente. Di qui un elemento di crisi, di rischio di perdita della presenza, di smarrimento dei valori, che costituisce un carattere immanente della coscienza, un dato permanente della condizione umana. Questa crisi l'uomo si sforza di dominarla, superando continuamente ciò che rischia di travolgerlo e producendo simboli e valori in grado di significare il mondo e l'esistenza e quindi di vivere. Di qui il carattere "storico" dell'uomo, portatore di cultura e creatore di forme sempre nuove e rinnovate di cultura.
La diffusione dell'uomo sulla terra, sin dalla preistoria, ha condotto all'elaborazione di culture estremamente differenziate e mutevoli, che si sono però continuamente intrecciate e incontrate in una continua, permanente, serie di scambi reciproci e di assimilazioni culturali.
Naturalmente questa concezione della "storicità" dell'uomo non è un dato universale. E' una concezione nostra, della cultura occidentale e cristiana. Non c'è una comune natura umana ma una comune storia umana, la quale, però, è ricostruibile (e conoscibile) solo all'interno della cultura occidentale, la sola che ha elaborato la categoria della storia come strumento per ordinare il reale, conoscere gli altri e se stessi. Altre culture avranno altre categorie, mitiche e rituali, per esempio. Ed anche altri valori. L'umanità come valore, ad esempio, l'umanità come universalità, è un valore nostro e non di tutte le culture. Non c'è un modo di giudicare in assoluto queste categorie e questi valori. Non ci sono culture migliori e culture peggiori ed ogni sistema di pensiero (come ogni sistema di valori) è relativo ad ogni singola cultura.
Non possiamo pertanto dire che le nostre categorie interpretative, in particolare la storia, siano migliori. Sono però le nostre e donano, solo a noi, una possibilità del tutto particolare. Solo nella nostra cultura è possibile una comprensione storica, non mitizzata, degli altri. Solo nel nostro storicismo è possibile inquadrare fatti, istituti e uomini che in sé non si comprendono affatto come storici. Solo noi consideriamo la realtà un prodotto storico umano e pertanto perfettamente comprensibile mediante la storia.
Questo non significa che la nostra cultura sia superiore. Al contrario significa che a noi spetta la responsabilità storica di comprendere gli altri, responsabilità alla quale ci sottraiamo ingiustificatamente quando rinunciamo a capire e ci lasciamo guidare da forme mitiche e irrazionali di pensiero. Rinunciare alla nostra responsabilità significa rinunciare alla nostra cultura.
Tutto questo significa che il senso della conoscenza storica degli altri non sta nella raccolta di dati ed elementi estranei alla nostra cultura, come se il motivo della ricerca fosse solo una vaga curiosità dell'esotico. Il senso della ricerca non è conoscere gli altri ma conoscere noi, aumentare il nostro livello di consapevolezza. Ciò avviene ampliando e modificando l'uso delle nostre categorie interpretative e di pensiero mediante la loro applicazione ad argomenti apparentemente "irrazionali" (quali erano definibili quelli religiosi). Il risultato è la relativizzazione delle nostre categorie, la presa di coscienza che queste categorie non sono assolute ma storicamente condizionate e prodotte. Questo non equivale però allo scetticismo: dire che le nostre categorie sono condizionate e relative non equivale a dire che non sono nulla. Sono un prodotto storico (come noi del resto) ma sono il nostro prodotto storico, sono le nostre categorie. E non possiamo abbandonarle senza rinunciare a noi stessi.


Storicismo e storicizzazione delle categorie

Noi non abbiamo, naturalmente, altra possibilità di pensare e di giudicare che tramite le nostre categorie di pensiero. Esse non sono nulla ma le forme mediante le quali valutiamo il presente e, pertanto, anche il passato: con esse costruiamo l'immagine del reale. Tra queste categorie è l'unità della presenza, lo "IO" e quant'altro è stato elaborato e distillato dalla filosofia occidentale: dal rapporto causa-effetto alle forme dell'intuizione, alla ragione matematica, alle scienze, fino all'arte, l'economia, la storia: soprattutto la storia. Lo storicismo è dunque "un modo di pensare nostro" del quale, però, non possiamo fare a meno. E' il modo che abbiamo, in senso lato, per intendere il, e mettere ordine nel, cosmo.
Lo spirito, la cultura occidentale, utilizza la storia per comprendere il mondo e la realtà, compresa la realtà propria. E' chiaro allora che non esistono epoche storiche in sé: esse sono il risultato della costruzione dello spirito con distinzioni operate dalle categorie storiografiche secondo il rilievo che di volta in volta ci conviene dare al tale o talaltro ordine di fatti. In altre parole le epoche storiche sono costrutti storiografici. Discorso simile per tutti gli "oggetti" della storia. Questo però non significa che il soggetto che compone questi costrutti storiografici - e cioè la cultura occidentale che abbiamo scelto di chiamare "spirito" - sia una realtà eterna, sottratta alla storia. Né equivale a dire, naturalmente, che sono eterne e immutabili le categorie del giudizio. Entrambi, soggetto e categorie, sono il prodotto di un processo storico che, peraltro, unicamente quel soggetto e quelle categorie possono ripercorrere e ricostruire nella sua realtà storica. La cultura occidentale è l'unica capace di pensare in modo storico e l'unica pertanto in grado di comprendere non solo gli altri ma anche se stessa non come un assoluto ma come un prodotto storico. Questo significa che lo storicismo è esso stesso un prodotto della storia. Sono pertanto pensabili età storiche ed altre culture nelle quali lo storicismo non si è sviluppato. Così come è del pari pensabile, in linea di principio, uno sviluppo della cultura occidentale che rinunci, in tutto o in parte, allo storicismo, anche se in questo caso più che uno sviluppo avremmo a che fare con una frattura netta rispetto alla linea di tendenza corrente. La nostra cultura non è sempre stata e non è detto che sarà sempre: essa va conservata e costruita.
Lo storicismo e le categorie storiografiche sono contemporaneamente: da una parte il risultato della storia, un prodotto storico; dall'altra la coscienza che consente di giudicare storicamente, conoscere in senso storico, prendere atto della realtà storica, produrre storia. Un cerchio che però non è aporetico. E' la storicizzazione dello stesso storicismo. Storicizzazione che significa relativizzazione ma non annullamento. Lo storicismo non è un assoluto e tuttavia noi, almeno noi occidentali, non possiamo farne a meno. Ne siamo dentro - sia nel senso che ne siamo prodotto sia nel senso che lavoriamo per produrlo - e costituisce l'essenza della nostra civiltà. E' chiaro allora che noi, se non vogliamo rinunciare ad essere noi stessi e abdicare alla nostra Ragione, possiamo pensare solo nei termini della nostra civiltà: appunto in quei termini che riassumiamo con una parola, lo storicismo.
A voler essere complicati e ad usare termini difficili potremmo dire che ontologicamente la storia produce lo storicismo come spirito dell'Occidente, mentre gnoseologicamente è l'Occidente a costruire la nozione di storia. In realtà è chiaro: che ogni cultura può pensare, giudicare ed agire solo nei termini delle categorie che le sono proprie; che i termini e le categorie della nostra cultura (senza i quali non ci comprenderemmo come uomini, almeno nel senso che noi associamo alla parola umanità) sono lo storicismo; che lo storicismo non è una realtà eterna che noi abbiamo accidentalmente scoperto (quasi si trattasse di un pensiero universale che funziona anche se nessuno se ne accorge oppure come se si trattasse di una realtà di fondo che esiste indipendentemente dai soggetti) bensì un prodotto storico peculiare della nostra civiltà.
Le nostre categorie di giudizio non sono eterne né universali ma noi, se non vogliamo abdicare a quella che nei nostri termini è la Ragione, non possiamo fare a meno di esse. Si tratta di un possesso non permanente, non garantito, ma da conquistare ogni volta. Un maggiore ampliamento della consapevolezza storiografica è proprio la storicizzazione dello storicismo. Lo spirito (e le categorie) non è la base di partenza per giudicare il mondo ma l'obbiettivo, il fine, l'impegno etico nella lotta per trascendere l'esistente. Al di là dell'idealismo, che mistifica le contraddizioni della realtà, lo storicismo è capace di sintetizzare i più alti valori della cultura Occidentale e quindi di essere assunto come modello metodologico per un umanesimo nuovo e integrale.


Cristianesimo e demitizzazione

L'apparato mitico-rituale ha presso le varie culture la funzione di elaborare un sistema simbolico che, a vari livelli, è in grado di comporre o limitare le crisi esistenziali connesse con i rischi del bisogno e della morte, risolvere o mascherare conflitti e contraddizioni, donare significato alla presenza storica degli uomini, costruire e giustificare un sistema di valori che costituiscono poi la caratteristica peculiare di una particolare civiltà. In realtà più che dall'apparato mitico-rituale inteso come parte limitata di una determinata cultura questi compiti sono svolti dalla cultura nel suo complesso e dunque dovremmo ragionevolmente parlare di cultura e non solo di miti e riti. Se distinguiamo e doniamo qui un'enfasi particolare al complesso mitico-rituale è solo per porre la nostra attenzione sul ruolo di fondazione della realtà che presso molte culture spetta a ciò che definiamo, con termini nostri, mito e rito.
Ciò che accomuna queste due funzioni culturali è la loro azione destorificante: la ripetizione, mitica o rituale che sia, sottrae al divenire storico alcune situazioni o condizioni esistenziali, donando loro un significato ed un valore che trascende il semplice accadere storico. Essi proteggono, cioè, dal "terrore della storia", dall'insignificanza e dal pericolo che i singoli accadimenti quotidiani possono assumere. La storia, ma più corretto sarebbe il divenire quotidiano, ha bisogno di conferme e di certezze che non possiede in sé. Il ruolo del complesso mitico-rituale, in molte culture, è proprio quello di dare alla storia questi significati, queste conferme, queste certezze. Su un piano astratto, fenomenologico, il mito, e il rito, rappresentano dunque una fuga dalla storia, una ricerca del senso della vita su un piano metastorico, o meglio su un piano destorificato. Naturalmente le varie culture poi, in termini concreti, non solo ricorrono in misura varia e diversa alla destorificazione, ognuna destorificando solo certi valori e aspetti dell'esistenza e non altri, ma la stessa "fuga dalla storia" non solo non è mai totale essendo sempre presente il senso della concretezza del reale, ma è finalizzata proprio a consentire il dispiegarsi di un esistenza nella quotidianità. Non esistono, perciò, culture "tutte mitiche", tutte immerse nel sacro di una religiosità totale e "spontanea", prive di qualsiasi coscienza tecnica, morale, prive di consapevolezza.
Su un piano astratto, e semplificando molto, al solo fine di stabilire un confronto con la nostra concezione del tempo storico, possiamo immaginare la concezione del tempo propria delle culture nei quali i simboli mitici sono fortemente attivi come quella di un tempo ciclico. Nulla è mai veramente nuovo nel tempo perché tutto è già stato fondato in modo definitivo "in illo tempore" e ogni volta che il mito viene narrato avviene una riattualizzazione della realtà dei primordi. Gli stessi riti, pur finalizzati al controllo di ciò che le culture vogliono come mutabile, sono spesso fondati miticamente (pur con rilevanti eccezioni: la cultura romana classica).
Con una certa approssimazione possiamo affermare che i riti hanno il compito di far entrare il nuovo in un ordine temporale chiuso. Miti e riti riassorbono nel metastorico le novità del divenire temporale, annullandolo o comunque controllandolo di fatto per riportare le novità in un ordine di stabilità. La conquista della coscienza cronologica e il riconoscimento culturale del divenire storico sono il risultato di un processo del quale è possibile seguire le tracce. E' nell'antico Medio Oriente, con la realizzazione dell'istituto dinastico nel quale un re è tale se discendente da un'altro re, che la necessità della conoscenza delle genealogie conduce alla coscienza del processo temporale come continuo mutamento, come serie continua di novità. Nell'Egitto dei faraoni, nella cultura iranica, nell'ebraismo biblico, si inizia ad aprire una dimensione del tempo come linea retta, con un'origine, un termine e la possibilità di misurazioni intermedie che scandiscono la scala cronologica del passato. Apparati mitico-rituali hanno ancora la funzione di proteggere dalle novità assolute, lo stesso istituto dinastico ha bisogno di conferme mitiche, tuttavia sorge il senso della storia come ineluttabile mutamento cronologico.
L'estremo, radicale sviluppo di questa rivoluzione culturale avviene con il Cristianesimo. L'Incarnazione di Dio nella storia qualifica in modo irreversibile il passato ed il presente. La "storia della salvezza" procede nel segno della diversità qualitativa del tempo e dell'apertura all'avvenire. Alla ciclicità temporale del mito si contrappone un decorso temporale unico e irreversibile, il cui centro è un fatto pienamente storico: l'Incarnazione. Alla stabilità mitica, nella quale il senso della vita è posto una volta per tutte in seguito alle vicende primordiali, si contrappone un ordine escatologico articolato nei momenti del presente, del passato, dell'avvenire. All'agire miticamente concluso degli esseri extraumani si contrappone la manifestazione in vari, successivi momenti, del disegno divino per la salvezza dell'uomo: la creazione, la caduta del peccato, il Patto con Israele, l'Incarnazione, il secondo e definitivo Avvento.
Naturalmente questo non significa che i simboli religiosi cristiani non abbiano una struttura e una manifestazione mitico-rituali. Anche il Cristianesimo è organizzato secondo una ripetizione liturgica e rituale ( la settimana, l'anno liturgico, la celebrazione delle messe ...) di eventi particolarmente significativi ormai trascorsi. Tuttavia esistono differenze di base tra i simboli mitici e quelli cristiani, differenze che rendono il Cristianesimo originale e rivoluzionario rispetto alle altre culture. La funzione mitica (e rituale), mediante il suo articolarsi in azioni ed eventi inaugurali, è quella di riassorbire la concreta molteplicità storica, il divenire incontrollato del tempo, nella ripetizione (narrata nel mito ed agita nel rito) delle origini, e comunque di azioni fondatrici ed autenticatrici. Ne risulta una destorificazione mitico-rituale che da luogo ad una "esistenza protetta" dalle contingenze, dalle novità, dai rischi dell'agire storico. Il simbolismo cristiano, unico e differente da tutti gli altri simbolismi mitico-rituali, non è riconducibile ad un mito delle origini. La fondazione del reale non è avvenuta una volta per tutte; il senso della vita non deriva dalla ripetizione di atti primordiali ma dalle continue scelte storiche, scelte cariche di conseguenze per la salvezza e per la vita di sé e degli altri. Abbiamo qui la presa di coscienza della storicità della condizione umana e il realizzarsi del piano escatologico in un tempo irreversibile, concezione lontana ed anzi opposta a quella ciclica del tempo, quella basata sul modello dell'eterno ritorno.
E' direttamente dalla cristiana "storia della salvezza", attraverso i cui momenti, a partire da quell'evento storico che è l'incarnazione dell'Uomo-Dio, si scandisce il senso dell'esistenza umana, che deriva alla cultura occidentale, e solo a lei, la coscienza della storicità della condizione umana. L'escatologia salvifica che si attua nel tempo dischiude all'uomo il senso della storia e della sua storicità e, nella prospettiva della fede, apre il senso delle azioni storiche, fa sorgere la coscienza della tensione tra valori morali e agire concreto, tra salvezza e peccato, tra dover essere ed essere di fatto.
Tutta la straordinaria capacità egemonica dell'Occidente, la sua stessa potenza tecnologica ma anche la grandezza dei suoi valori e delle sue conquiste, fondate sulla potenza dell'operare mondano, non sarebbero state possibili senza la rivoluzionaria esperienza del tempo storico introdotta dal Cristianesimo. La capacità inesauribile di mutamento, di opere ed azioni nell'economia, nella scienza, nell'arte, nel diritto, nella morale, capacità che pone l'Occidente nella situazione di comprendere, assorbire, in alcuni casi annichilire le altre culture, la conquista di questo primato che prima di tutto, e nonostante ogni orrore storico, è primato civile, deriva dalla rivoluzione operata nel mondo antico dal Cristianesimo. Un legame a volte estremamente mediato ma sempre reale e ricostruibile corre tra i valori religiosi e rivoluzionari del Cristianesimo e l'azione morale che si sviluppa nell'agire mondano con le sue conquiste e realizzazioni.
Il processo che in Occidente conduce l'uomo ad una progressiva laicizzazione, la conquista a partire dalla Riforma di spazi sempre più ampi per l'autonomia dell'uomo, spazi che riducono quelli per il divino, avviene entro la prospettiva della civiltà cristiana. La demitizzazione, lo storicismo, la messa in discussione e il superamento progressivo dei dogmatismi religiosi e politici, il passaggio dalle teocrazie medievali alla convivenza democratica, il manifestarsi della tecnica e della produzione fuori dai vincoli religiosi e di potere, tutto questo non è altro che l'espressione di una presa di coscienza di una tendenza che la civiltà occidentale porta avanti con un riferimento più o meno mediato con il senso della storia dischiuso dal Cristianesimo. L'energia con la quale l'Occidente attualmente sconsacra, laicizza, attribuisce valore al solo agire storico, sarebbe inconcepibile senza la tradizione cristiana. Il processo di secolarizzazione, le pretese di uno storicismo trionfante che vuole ridurre tutto a storia, a prodotto umano, compreso lo stesso Cristianesimo del quale si apprezza il ruolo culturale ma si nega la verità trascendente, tutto questo non è che la continuazione e il prolungamento di una tendenza storicista che è propria solo della nostra cultura, ed è propria solo della nostra cultura in quanto questa cultura è figlia del Cristianesimo.
I valori dell'umanesimo integrale, di un umanesimo sempre più coerente e consapevole di sé, sono strettamente legati alla rivoluzione culturale introdotta nella nostra storia dal Cristianesimo. La consapevolezza di questo fondamento culturale dovrebbe bastare da sola a liquidare tutte mode e tendenze ideologiche che vedono nel Cristianesimo e nella religione unicamente delle forze oscurantiste, la causa prima delle degenerazioni dell'Occidente, vaneggiando un ritorno a situazioni pre-cristiane considerate "naturalmente" migliori. Entrano qui in gioco inconsapevolmente componenti mitiche e irrazionalistiche che finiscono per avere una funzione destorificante sulla realtà.


Il destino di Dio

Diverso è invece il problema se la coscienza storica, introdotta proprio dal Cristianesimo, non abbia, o debba avere, come esito la riduzione del Cristianesimo a mero momento storico e, quindi, al suo superamento per il tramite di una coscienza culturale tutta, ed esclusivamente, mondana. Se, cioè, allo storicismo come categoria di fondo della cultura occidentale, non sia collegata come coerente sviluppo, la consapevolezza della destinazione esclusivamente e totalmente mondana dei valori e dei prodotti umani. Il Cristianesimo potrebbe su una strada che lui stesso ha inaugurato, trasformarsi da religione viva in fatto storico e culturale del passato. In altri termini il problema che ci si può porre è a questo punto se la tendenza alla laicizzazione e alla demitizzazione sia, nella nostra civiltà, irreversibile: se il maturarsi di una coscienza storicista non abbia come esisto irreversibile la storicizzazione dello stesso Cristianesimo e il trionfo della secolarizzazione.
Sociologi, filosofi e polemisti da almeno trenta anni discettano sul problema della "Eclissi del Sacro" nella civiltà occidentale. Perfino i teologi, si pensi alla cosiddetta "teologia della morte di Dio", hanno preso posizione sulla questione: alcuni paventando altri addirittura auspicando l'evento.
Occorre chiarire che quelle che ci si presentano davanti sono linee di tendenza e non fatti conclusi. Il processo di secolarizzazione è un fatto sul quale si può discutere, del quale chi ha problemi pastorali può anche legittimamente preoccuparsi (consolandosi però con la riflessione che ove nulla può l'uomo tutto può Dio) ma non è una realtà scontata e consolidata.
Prescindendo dal fatto non trascurabile che la storia può rendere conto dei fatti dopo che sono accaduti e non prima, non avendo lo storico, come nessuno del resto, potere di previsione sul futuro, chi interpreta la secolarizzazione come il destino ineluttabile dell'Occidente commette l'errore di accettare come verità quella che è soltanto un'opinione banale: l'opinione che, nella nostra civiltà basata sulla dialettica religioso-civico, il religioso rappresenti la conservazione, il passato, mentre il civico costituisce il progresso e l'avvenire. E' una opinione consolidata nella nostra cultura, una opinione che risale almeno all'Illuminismo con l'oscurantismo clericale e il progresso dei "Lumi" e che ha trovato sovente echi in varie formule: si pensi alla successione vichiana tra l'età degli dei (religiosa) e quella degli uomini. Si andrebbe da un grado massimo di religiosità, magari rinvenibile presso i cosiddetti "primitivi", ad un grado zero della religione, quella dell'eclissi del sacro. Ma è appunto solo un'opinione, per di più intessuta di ingenuo etnocentrismo se non di razzismo, e non un giudizio scientifico o storico fondato.
La scala della civilizzazione, misurata sul metro della religione, che porta dalle età selvagge e primitive alla moderna civiltà industriale secolarizzata, è un mito evoluzionista e non una realtà storica. Il fatto che la secolarizzazione sia la tendenza dominante in atto non comporta che essa giunga ineluttabilmente sino alle estreme conseguenze: la "morte di Dio" non è una necessità logica della nostra epoca.
Certamente l'influenza e il ruolo delle chiese è minore oggi rispetto ad un passato anche recente. E' anche vero che questa perdita di influenza non è solo un dato sociologico, effetto dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione di massa, ma rispecchia anche una presa di coscienza nella consapevolezza delle persone: non solo si crede meno ma si è anche coscienti di credere meno. E' anche vero che la diffusione di nuove religioni, in genere a carattere esoterico ed orientaleggiante, ad uno sguardo attento si rivelano, più che il segno di una rinascita del sacro, l'altra faccia della secolarizzazione. Tuttavia non sembra che, a tutt'oggi, si possa far a meno, indipendentemente dall'essere credenti o meno, dei valori offerti e fondati dalle chiese. Tutti i valori nuovi e vecchi, offerti come alternativi dalla modernità, "progressisti " come l'efficientismo tecnologico o reazionari come il razzismo, rischiano di essere autodistruttivi. Al Cristianesimo più che il nuovo, quando accade, si sostituisce il nulla. La stessa critica alla realtà contemporanea e alle sue disfunzioni avviene in termini di valori cristiani. Il Cristianesimo non ha esaurito, all'interno della nostra cultura, il suo ruolo di produttore di valori. La questione sulla fine della religione è dunque ancora aperta.
Un ultima puntualizzazione sul tema riguarda, all'interno del generale processo di laicizzazione della cultura, il ruolo proprio della Storia delle religioni. Abbiamo visto come essa proceda nella direzione di una storicizzazione e relativizzazione totale. Questa relativizzazione, applicata al Cristianesimo, non conduce a considerarlo come un prodotto storico relativo e quindi, pur valorizzandone il ruolo culturale, a intenderlo come un fatto totalmente umano? La sua storicizzazione non significa negarne l'aspetto trascendente e svilirne la pretesa di porsi come verità universale? La risposta è negativa. Per metodo lo storico deve indagare tutti i fenomeni come se fossero esclusivamente storici. Le sue risposte, pertanto, possono essere solo di carattere storico. Non può però pronunciarsi affatto sul valore trascendente delle cose da lui studiate. La sua è un'opera di chiarificazione che lascia però molto spazio ai problemi, ai dubbi, alle scelte, della fede. La Storia delle religioni non è la disciplina che dimostra l'esistenza di Dio. Ma non è, non può essere, la disciplina che dimostra che Dio non esiste.
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Re: Lineamenti di Storia delle Religioni

Messaggioda GrisAdmi » sab feb 09, 2008 6:00 pm

NOTA BIBLIOGRAFICA

Non è negli scopi di questo testo suggerire neanche lontanamente una bibliografia completa delle trattazioni storico-religiose italiane o tradotte in italiano. Quelli che seguono vogliono essere solamente dei suggerimenti per iniziare ad accostarsi alla Storia delle religioni all’interno di una prospettiva storicista.
Il lettore interessato può disporre in italiano di due pregevoli testi introduttivi. Il primo è il fondamentale volume di Angelo Brelich: Introduzione alla Storia delle religioni, Roma, 1965; un’opera che, a dispetto dell’età, costituisce ancora oggi un punto di riferimento costante per gli studiosi. Il secondo è il testo di Dario Sabbatucci: Sommario di Storia delle religioni, Roma, 1987; libro che oltre a ripercorrere criticamente la storia degli studi passa in disamina anche le attuali prospettive di ricerca e del quale ci siamo ampiamente serviti per illustrare alcune tematiche. Sfortunatamente questi libri hanno, per motivi diversi, una circolazione ristretta e potrebbero essere di difficile reperimento fuori delle biblioteche specializzate. Sempre di D. Sabbatucci il lettore può utilmente consultare: La prospettiva storico-religiosa, Roma, 1990, che tuttavia presuppone già alcune competenze. Ancora di D. Sabbatucci Il politeismo, Roma, 1999, offre, in due volumi, una interpretazione critica di alcuni temi fondamentali della disciplina. Come testimonianza di un ripensamento complessivo si veda: A. Brelich, Storia delle religioni, perché?, Napoli, 1979. Come esemplificazione del modo di affrontare le problematiche storico-religiose da una prospettiva storicistica vanno ricordati alcuni testi ancora fondamentali nonostante l’età; di Vittorio Lanternari: La Grande Festa, II edizione Bari, 1983, sulle feste di capodanno; di A. Brelich: Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma 1976 (ristampa); di Ernesto de Martino: Morte e Pianto Rituale, II edizione, Roma, 1983. Sugli aspetti del simbolismo religioso e le sue funzioni si possono utilmente consultare di D. Sabbatucci: Divinazione e cosmogonia, Roma, 1985. Sui temi di una conquista di una coscienza storicista è importante la ricerca complessiva di E. de Martino. Ad esempio: Il Mondo Magico, Roma, 1981 (orig. 1948); La Fine del Mondo, Torino, 1977 (postumo e pressoché introvabile. Un riassunto critico è reperibile in questo web).
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