Gesù Cristo vero Dio vero Uomo

Segnalazioni di giornali, riviste, trasmissioni radio-televisive che riguardino i Movimenti Religiosi Alternativi e le tematiche a questi connesse.

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Gesù Cristo vero Dio vero Uomo

Messaggioda Citocromo » dom dic 25, 2011 1:33 pm

Articolo tratto da L'Osservatore Romano del 25 dicembre 2011

Gesù vero Dio e vero uomo
Lo scandalo della familiarità

di INOS BIFFI

Gesù di Nazaret, Figlio di Dio: è l'originalità inattesa e sorprendente, o, come si dice, l'essenza del cristianesimo, su cui regge e da cui proviene tutto il Vangelo. La "buona notizia" non è che "il figlio del falegname" (Matteo, 13, 55) sia veramente uomo. Questo è immediatamente ovvio e non provoca nessuno stupore. In altre parole: a impressionare non è che ci fosse un uomo chiamato Gesù, che aveva come padre Giuseppe, come madre Maria, con dei "fratelli" di nome "Giacomo Giuseppe, Simone e Giuda", e con delle "sorelle" (Matteo, 13, 55-56), ma ciò che in lui appariva eccedente a una condizione umana "normale" e ad essa non riducibile: la sua sapienza, i suoi prodigi (Marco, 6, 2).
La storia di Gesù nei vangeli è esattamente la storia di questa irriducibilità, o degli eventi mirabili (mirabilia) che - senza alterare la dimensione umana del figlio del falegname, ma lasciandola intatta e normale - ne facevano intuire il profondo mistero e ne lasciavano trasparire l'intima identità divina, ossia quella identità, che apparve in tutta la sua luce nel prodigio della risurrezione, quando Gesù fu veduto come Signore - "Abbiamo visto il Signore!" (Giovanni, 20, 25) .
Quel vangelo era incominciato con la definizione di Gesù come Verbo che "era in principio", che "era al cospetto di Dio", "che era Dio" (Giovanni, 1, 1), o come "l'Unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre" (Giovanni, 1, 18); e terminava, dopo l'esperienza o la constatazione della sua storia, con lo stesso riconoscimento. D'altra parte, è dichiarato espressamente che era stato scritto per suscitare la fede in Gesù: "il Cristo, il Figlio di Dio" (Giovanni, 29, 31).
Ed è, in realtà, quanto vale per tutti i vangeli. Questi non sono stati scritti per narrare la vicenda di un semplice uomo, sia pure eccezionale per le sue doti o le sue imprese, ma per attestare la fede, storicamente fondata, in Gesù Figlio di Dio.
O anche: i vangeli nascono come attestazione e proclamazione di questa sorpresa, che attraversava e sosteneva la comunità di quanti erano diventati discepoli di Gesù non perché egli fosse un uomo eccezionale, ma alla fine perché egli era il Figlio di Dio fatto uomo.
Gli "avvenimenti" "trasmessi da quelli che ne furono testimoni oculari fin dal principio e divennero ministri della Parola" interessavano per la fede che avevano fondato e suscitato, ed è la ragione dello scrupolo storico di Luca, che a sua volta intende scriverne "un resoconto ordinato", "dopo ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi" (Luca, 1, 1-3). Quanto al vangelo di Marco incomincia con le parole: "Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio" (Marco, 1, 1).
Ma sembra che proprio questo aspetto che concerne in maniera unica Gesù di Nazaret, questo suo essere "veramente figlio di Dio" (cfr. Matteo, 27, 54), sia una verità che si sta in qualche modo annebbiando e quasi passando in secondo ordine, rispetto al riconoscimento di Gesù come vero uomo.
Ci sono teologi e biblisti che si ritengono scientifici, se fanno di tutto per creare difficoltà e intralci al riconoscimento della divinità di Gesù, che in realtà è quanto appare con luminosa chiarezza nella Scrittura neotestamentaria.
Certo, che Gesù sia "Dio da Dio", "Dio vero da Dio vero", il Figlio eternamente generato dal Padre, è una verità disorientante, anzitutto per la tradizione teologica ebraica, che difficilmente poteva sopportarla e non giudicarla una bestemmia; ma proprio per questo è sorprendente che il riconoscimento di Gesù Figlio di Dio sia avvenuto proprio dagli ebrei, a cominciare dai Dodici, che lo hanno veduto e udito (cfr. 1 Giovanni, 1, 1-3), che hanno mangiato e bevuto con lui (Atti, 10, 41) e sono vissuti con lui (cfr. Atti, 1, 21).
Non avrebbe procurato reazione né prodotto smarrimento una creatura particolarmente legata a Dio: un profeta, un messaggero divino, un mediatore scelto e da lui prediletto. La stessa storia di Israele ne aveva riconosciuti (Giovanni il Battista, Elia, Geremia) come appare dalla risposta di Pietro alla domanda di Gesù sul giudizio della gente riguardo alla sua identità (Matteo, 16, 13, 14).
Ma non appariva invece sopportabile ed equivaleva a una bestemmia la pretesa di un uomo, Gesù, che aveva a Nazaret il padre, la madre, i fratelli e le sorelle, di avere il potere di rimettere i peccati (Matteo, 9, 2-3), di identificarsi con "il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza" (Matteo, 26, 64). L'annunzio di Gesù quale Figlio di Dio, venuto nella carne, è il cuore della predicazione evangelica. Ed è, insieme, una verità non facile da conservare.
Assai presto sorge l'eresia che nega la consistenza dell'incarnazione; vi succede quella dell'arianesimo, che, a varie gradualità, misconosce che Gesù sia, nel senso pieno e rigoroso del termine, il Figlio di Dio. Gli ariani sono disposti a fare di Gesù l'elogio più alto, a riconoscerlo come creatura supremamente nobile, la prima che fosse uscita dalle mani di Dio. Appunto un uomo meraviglioso, perfetto, ma non un uomo veramente Dio.
Da qui si comprende l'importanza fondamentale del primo grande concilio ecumenico, quello di Nicea del 325. Leggendo la Scrittura nel suo preciso e integrale contenuto, con l'aiuto di categorie concettuali estranee alla cultura biblica ma a servizio della fede cristiana, Nicea definisce Gesù Cristo: "Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre": e fu la definizione che, dopo non poche peripezie e compromessi, anche per la difficoltà di trovarvi un linguaggio uniforme e adeguato, alla fine rifulse come espressione della fede cattolica, grazie ai grandi dottori e pastori della Chiesa, tra i quali ricordiamo Atanasio di Alessandria in Oriente, e Ambrogio in Occidente. Non si possono studiare le peripezie storiche e ripassare gli appassionati dibattiti linguistici di quel primo concilio, senza restare profondamente commossi e coinvolti; senza ammirare come prodigiosamente in quelle formule all'apparenza secche e levigate salisse ed emergesse il Vangelo, o come vi si inalveasse la stessa Parola di Dio, o la Rivelazione, che si riscontra in atto nella vita di Gesù di Nazaret, nelle sue azioni e predicazioni.
Abbiamo accennato ad Ambrogio: egli succedette inattesamente e contro sua voglia all'ariano o semiariano Aussenzio, ed avvertì subito che tutta la sua opera pastorale si sarebbe dovuta orientare a ricondurre i cristiani della Chiesa di Milano - non solo di Milano - alla pura fede di Nicea. Lo fece nella predicazione, negli scritti e negli inni. Egli avvertiva che senza la fede nicena tutto l'edificio cristiano sarebbe crollato, ravvisando, insieme, con estrema lucidità i molteplici riflessi in dottrina e prassi ecclesiale della verità di Gesù Figlio di Dio, nel senso più rigoroso del termine.
"Contro tutti gli eretici - scrive - sta questa professione della fede cattolica: "Cristo è Figlio di Dio, eterno dal Padre e nato dalla Vergine". Questa professione di fede (...) è il fondamento della Chiesa" (De incarnatione, V, 33. 35). Gerolamo, che non sempre fu tenero con Ambrogio, e per ragioni forse non del tutto edificanti, avrebbe scritto di lui: "Dopo la morte, che non arrivava mai, di Aussenzio, insediatosi Ambrogio come vescovo a Milano, tutta l'Italia viene ricondotta alla retta fede" (Chrònicon).
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Mi sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità. (Sant'Agostino, Lettere, 1,1)
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Re: Gesù Cristo vero Dio vero Uomo

Messaggioda Citocromo » gio gen 19, 2012 7:28 pm

Articolo tratto dall'Osservatore Romano del 20-01-2012, p. 4.

«Chi dice la gente che io sia?» domanda anche oggi Gesù
Identikit del Messia

Anticipiamo un articolo del cardinale arcivescovo emerito di Bologna che viene pubblicato nel prossimo numero della rivista «Vita e Pensiero».

di GIACOMO BIFFI

Ciò che primariamente colpisce nel magistero di Gesù è la straordinaria chiarezza di idee. Tutto è lucidamente enunciato senza ambiguità o tentennamenti. Le esitazioni, il rifugio nel soggettivismo, le formule dubitative («forse», «secondo me», «mi parrebbe»), così frequenti nel nostro dire, non si incontrano mai nei suoi discorsi, dai quali sono lontanissimi i vezzi, le civetterie, l’apparente arrendevolezza del “pensiero debole”. Gesù manifesta anzi una sicurezza che sarebbe persino irritante, se non fossimo contestualmente conquistati dall’oggettiva elevatezza e luminosità del suo insegnamento. Pur nella grande varietà degli argomenti toccati, non c’è frammentazione o incoerenza nella visione di Cristo. Tutto è raccolto e unificato attorno a due temi fondamentali sempre ricorrenti: quello del Padre (un padre che sta all’origine di qualsivoglia esistenza) e quello del Regno, traguardo di ogni tensione delle creature e del loro peregrinare nella storia. In lui però non c’è nulla nè del pensatore distratto, così assorto nelle sue alte elucubrazioni da non accorgersi nemmeno più delle piccole cose, nè del superuomo che disdegna di lasciarsi impigliare negli accadimenti senza rilevanza e senza gloria. Al contrario: Gesù si dimostra un osservatore attento — anzi interessato e compiaciuto — della realtà “feriale” nella quale siamo tutti immersi. Le cose più umili vengono utilizzate nei suoi paragoni: i bicchieri e i piatti da lavare, la lucerna e il lucerniere, il sale da usare in cucina, il bicchiere d’acqua fresca, il vino vecchio che è più buono, il vestito rattoppato, la pagliuzza e la trave, la cruna degli aghi, i danni provocati dalle tarme e dalla ruggine, gli effimeri fiori del campo, le prime foglie del fico, l’arbusto di senape, il seme che cade in terreni diversamente accoglienti e produttivi, la rete dei pescatori che raccoglie al tempo stesso pesci commestibili e pesci da buttare, la pecora che si allontana dal gregge e si perde. E questo è un elenco che si potrebbe molto allungare. Quanto s’è detto dovrebbe bastare a persuaderci che Gesù non ha somiglianza alcuna con l’ideologo che — tutto preso dalle sue grandiose teorie — non riesce più a vedere e a prendere in considerazione le vicissitudini spicciole della gente comune. E proprio questa sua sensibilità per le piccole cose concrete e l’arte sua inimitabile di incastonarle nei ragionamenti più alti gli consentono di parlare a tutti, anche ai semplici, delle verità più sublimi con la mediazione di un linguaggio limpido e originale; un linguaggio che ci appare ben diverso da quello di molti pensatori professionisti e di non pochi attori della scena politica. Gesù si dimostra poi sempre un uomo sovranamente libero. Nessuno riesce a distoglierlo dai suoi intenti. E’ libero di fronte a quelli del suo clan, i quali, dopo averlo preso per matto (cfr. Marc o , 3, 21), si immaginano di poter ricavare qualche vantaggio dal suo successo e dalla sua notorietà e cercano di riprendere i rapporti (cfr. Marco, 3, 31-34). E’ libero di fronte ai capi del suo popolo e ai suoi avversari, che cercano di ostacolarlo nel suo ministero, e ai quali risponde seccamente: «Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro» (Giovanni, 5, 17). Egli riconosce e rispetta l’autorità, ma non ha timori reverenziali nei confronti delle persone che ne sono investite. Basti pensare alle invettive rivolte ai farisei e agli scribi (cfr. Matteo , 23,32). Ai sadducei, che ricoprivano le più alte cariche sacerdotali, non esita a manifestare il suo dissenso nei termini più decisi: «Voi vi ingannate, poichè non conoscete nè le Scritture nè la potenza di Dio» (Matteo , 22, 29). Con il tetrarca di Galilea, Erode, non fa proprio complimenti: «Andate a dire a quella volpe...» (cfr. Luca, 13, 32). Del resto, la sua franchezza è esplicitamente riconosciuta anche da quelli che gli sono ostili, come i farisei e gli erodiani che una volta così gli si rivolgono: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Marco , 12, 14). Gesù è libero perfino dalla «apparenza della virtù»; vale a dire, non lo preoccupano affatto i giudizi malevoli e manifestamente infondati che la gente può formulare su di lui. Egli va avanti per la sua strada, anche a prezzo del deterioramento della sua buona fama: «E’ venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”» (Matteo, 11, 19). Si direbbe che ritenga valido anche per sé l’ammonimento che rivolge agli altri: «Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (cfr. Luca, 6, 26). Sono eccezionali in Gesù la solidità psicologica e il dominio di sè. E’ tranquillo e impavido nel bel mezzo di una tempesta che rischia di rovesciargli la barca (cfr. Marco, 4, 35-41), così come con impressionante forza d’animo affronta e quasi ipnotizza la folla inferocita di Nazaret che si propone di ucciderlo: «Tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (Luca, 4, 28-30). Non è però un imperturbabile gentleman della società vittoriana, che si fa un punto d’onore di non lasciar trapelare all’esterno le proprie emozioni. Al contrario, Gesù non ha alcun ritegno a mostrarsi sconvolto, come per esempio davanti alle lacrime di Maria, la sorella di Lazzaro: «Quando la vide piangere (...) si commosse profondamente»; anzi «si turbò», precisa l’evangelista (cfr. Giovanni, 11, 33). E al pensiero della morte dell’amico, «scoppiò in pianto» anche lui; tanto che i presenti commentano: «Vedi come l’amava» (cfr. Giovanni, 11, 35-36). Contemplando dall’alto Gerusalemme, alla prospettiva della sua distruzione non sa frenare le lacrime: «Quando fu vicino,alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (cfr. Luca, 10, 41-42). Ma sa anche entusiasmarsi, lasciandosi contagiare dalla gioia dei discepoli, felici di aver portato a termine la loro prima esperienza di evangelizzazione: «I settantadue tornarono pieni di gioia (...) In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”» (cfr. Luca, 10, 17-21). Gesù era dunque un uomo che sapeva piangere e sapeva stare allegro. Che sapesse piangere è esplicitamente documentato, come s’è visto; che sapesse anche stare lietamente in compagnia, lo si deduce se non altro dal piacere con cui i pubblicani — che erano di solito gaudenti e bontemponi — l’accoglievano alla loro mensa. Quando aveva di fronte della gente affaticata ed esausta, provvedeva fattivamente a sostentarla. Ma certo non doveva avere l’abitudine di rovinare la serenità e la giocondità di un convito con riflessioni troppo malinconiche o con richiami intempestivi alla fame nel mondo. Leggiamo ora un famoso episodio della sua vita, secondo la narrazione di Matteo: «Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perchè nè la carne nè il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”» (Matteo , 16, 13-17). Come si vede, Gesù stesso propone qui il “problema di Cristo”. Ed è stimolante rilevare come Gesù sia interessato a un duplice tipo di investigazione: innanzitutto: La gente chi dice che io sia? Quali sono su di me le opinioni del mondo? Poi: Voi chi dite che io sia? Voi che siete la mia Chiesa, voi che vi esprimete ufficialmente per bocca di Pietro, che cosa dite agli uomini di me? Ad ascoltare la «gente» non si raccoglie, a proposito di Cristo, una certezza, ma piuttosto una molteplicità di opinioni. Passiamole un po’ in rassegna, facendone in qualche modo tre gruppi, così da semplificare il discorso. Gesù è per molti un mito, che ha arricchito e adornato l’esistenza, senza aver lui l’esistenza; qualcosa come Orfeo nell’antico mondo greco e, più modestamente, come Babbo Natale nel moderno Occidente secolarizzato. Oppure è un uomo leggendario che, proprio perchè non è mai esistito, ha potuto essere rivestito a poco a poco dei caratteri della divinità. O, se si vuole, è un’idea divina, una fede, uno slancio dello spirito, che ha assunto progressivamente nella coscienza di una comunità di uomini sembianza e natura di uomo. Insomma, una grandezza sovrumana, ma irreale. Gesù — dicono altri — è un uomo, straordinariamente ma semplicemente uomo, che con il suo fascino eccezionale, la sua intelligenza sublime, la sua meravigliosa personalità, ha impresso un corso nuovo alla storia universale: in una parola, un genio. C’è chi dice: un genio religioso, che, avendo intuito con chiarezza e intensità inarrivabili l’ultima verità delle cose, ha scoperto la paternità di Dio, il culto «in spirito e verità», la legge della carità. C’è chi dice: un genio filosofico, che ha rivelato il valore della coscienza soggettiva e il primato del mondo interiore su quello esteriore. C’è chi dice: un genio sociale, che ha affermato la sostanziale uguaglianza tra gli uomini e ha esaltato la ricerca della giustizia. C’è chi dice: un genio politico, che ha introdotto nella storia umana l’impegno e l’ideale della liberazione da tutte le prepotenze e da tutte le oppressioni esteriori. Insomma, una grandezza reale, ma non sovrumana. Gesù — dice una terza opinione — è un uomo certamente esistito, ma del quale non è possibile sapere niente di certo: i documenti in nostro possesso ci parlano tutti del Cristo che è stato oggetto della fede, dell’amore, dell’adorazione della comunità primitiva, ma non ci mettono in condizione di chiarire chi sia stato veramente in se stesso il Gesù della storia. Insomma, un enigma storico che non sarà mai risolto. C’è da notare che, in genere, i giudizi che circolano tra la «gente» sono intenzionalmente positivi e benevoli: nessuno, o quasi nessuno, parla male di lui. Istituire la critica di queste opinioni, mostrandone sia il bagliore di verità che c’è in ciascuna sia i suoi limiti e la sua globale inconsistenza, è un lavoro di analisi lungo, ma non difficile, e in altra sede anche doveroso per il cristiano che vuol vivere la sua fede in modo intellettualmente maturo. Ma noi non ce lo proponiamo, in questa che vuol essere una meditazione e si prefigge solo il confronto tra le due posizioni (quella della gente e quella della Chiesa), per rilevare i due diversi modi di accostare il mistero di Cristo e prendere consapevolezza della loro totale e assoluta incompatibilità. Questa riflessione vuol solo inquietare, fino a estinguere, se possibile, la coesistenza nel nostro spirito di mondo e Chiesa, delle opinioni della gente e della conoscenza donataci dal Padre, per crescere nella limpidità della fede e nella coerenza della vita. Anche se molto diverse tra loro, le opinioni della «gente» hanno in comune il ritenere Gesù di Nazaret un “caso classificabile”: «uno dei profeti». E’ un mito? La storia è piena di miti. E’ un’idea che ha segnato la vicenda umana? Sarebbe paragonabile alla gnosi del mondo antico o al marxismo del mondo moderno. Un genio religioso? Possiamo annoverarlo con Buddha, con Mosè, con Maometto. Un filosofo? Platone e Aristotele lo possono prendere in loro compagnia. Un indagatore del sociale? Potrebbe stare con gli Enciclopedisti del XVIII secolo e con Marx. Un agitatore? Come lui e più efficaci di lui, ci sarebbero Spartaco, Masaniello, Bakunin. Un liberatore? Mettiamolo con Simon Bolivar e con Giuseppe Garibaldi. Un uomo di cui non si può sapere nulla di certo? Se ne danno altri esempi: Omero, Pitagora, lo stesso Socrate sarebbero a lui assimilabili. Sembrerebbe di capire che lo sforzo inconscio della «gente», pur manifestandosi in ipotesi molto disparate e pur esprimendosi in giudizi solitamente benigni, sia quello di ridurre Gesù di Nazaret a qualcosa di già contemplato, di risaputo, di “normale”: l’importante è metterlo in qualche scompartimento previsto dalla esperienza umana; così, quando è sistemato in un cassetto ed etichettato, non è più un caso unico e non può turbare più. Se la caratteristica del parere della «gente» è la pluralità delle opinioni, la connotazione della risposta ecclesiale è l’unità. Non c’è pluralismo nella Chiesa a proposito di Gesù Cristo: la risposta di Pietro è la risposta di tutti. L’identità della convinzione di ciascuno di noi con la fede di Pietro è la “pietra” di paragone che giudica la legittimità dell’appartenenza ecclesiale. Chi altera questa fede non può avere posto nella Chiesa. La comunità apostolica non conosce su questo punto alcuna propensione all’irenismo. «Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo» (2 Giovanni, 10). «Vi metto in guardia dalle bestie in forma d’uomo, che non solo voi non dovete accogliere, ma, se è possibile, neppure incontrare. Solo dovete pregare per loro perchè si convertano, il che è difficile» (Ignazio, Agli Smirnesi IV, 1). «Sono cani rabbiosi, che mordono di nascosto; voi dovete guardarvi da costoro, che sono difficilmente curabili» (Ignazio, Agli Efesini VII, 1). E mentre le “opinioni” mondane su Gesù di Nazaret tendono, come si è visto, a renderlo classificabile, la fede ecclesiale, che si esprime per bocca di Pietro, sottolinea la sua assoluta unicità: Gesù di Nazaret è «il Cristo, il figlio del Vivente, il figlio di Dio». Gesù di Nazaret è «il»: un caso a sé del tutto imparagonabile. Come si è potuto vedere, il nocciolo del problema cristologico sta proprio qui: Gesù è “uno dei...” o “il”?; E’ catalogabile o è un caso a sè? la sua comparsa nel mondo è un fatto importante, ma commisurabile con i nostri metri di giudizio, o è un evento unico, decisivo, irripetibile? Questa è la questione. Essere “cristiani” significa avere capito che Gesω è “il”, che non ci sono qualifiche adeguate a lui, che è una singolarità assoluta. Ne viene come conseguenza esistenziale che anche il nostro rapporto con lui non sopporta altre connotazioni che la “unicità”. La nostra conoscenza di lui non può essere quella che vale per le altre cose e le altre persone, ma è una luce che ci è data dall’alto: «Nè la carne nè il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli». Il riconoscimento della sua signoria non è la conclusione di un teorema, ma una docilità allo Spirito Santo: «Nessuno può dire: Gesù è Signore, se non nello Spirito Santo» (1 Corinzi, 12, 3). Il nostro amore per lui non può tollerare confronti: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Matteo , 10, 37). Il nostro puntare la vita per lui non può che essere totale, assoluto, definitivo, come nessuna militanza è ragionevole che sia: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (Matteo , 10, 39).
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