teologia trinitaria 1

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teologia trinitaria 1

Messaggioda geodea » mer apr 18, 2007 6:23 am

Dal Nuovo Testamento ai dogmi cristologici

L’affermazione fondamentale dei dogmi cristologici dell’antichità è la stessa del Nuovo Testamento: nell’uomo Gesù di Nazareth, confessato come Cristo, cioè come inviato ultimo e definitivo («escatologico») di Dio, la fede incontra la parola e l’azione di Dio stesso, in quanto ne incontra l’essere. Questa è la tesi che le note seguenti intendono, in termini necessariamente schematici, illustrare. Il nostro percorso si strutturerà come segue: dapprima alcune considerazioni introduttive sulla struttura delle presentazioni della figura e del significato di Gesù («cristologie») proposte dal Nuovo Testamento; seguirà una presentazione sintetica della problematica cristologica classica, centrata sui punti focali dei concili di Nicea e Calcedonia; concluderemo con alcune considerazioni sulle modalità di interpretazione («ermeneutica») con le quali l’annuncio neotestamentario è stato presentato utilizzando alcune categorie di matrice filosofica greca, cercando di mostrarne il caratteristico intreccio di fedeltà e creatività.

Introduzione: un solo Gesù, molte cristologie
Che il messaggio del Nuovo Testamento abbia un carattere plurale, dovrebbe essere evidente. Già il fatto che i vangeli canonici siano quattro è abbastanza indicativo; di questi uno, Giovanni, mostra a prima vista una struttura e un contenuto marcatamente originali rispetto agli altri tre, ma anche tra questi ultimi sussistono differenze e specificità di enorme rilevanza. Quanto vale per gli evangeli può essere parimenti affermato degli altri testi raccolti nel canone neotestamentario: i diversi autori presentano Gesù a in prospettive diverse, che non possono essere appiattite.
Per molte ragioni, tuttavia, nella storia della chiesa e della teologia è storicamente prevalsa una nettissima tendenza a ridimensionare, la portata delle diversità, confinandola, in modo più o meno dichiarato, su di un piano teologicamente poco rilevante. Dall’epoca patristica fino al secolo scorso si sono composte, ad esempio, le cosiddette «armonie» evangeliche, nelle quali brani dei quattro racconti canonici venivano utilizzati per comporre un unico ritratto di Gesù. Per quanto non prive di un loro significato teologico, tali tentativi vanno contro la natura dei testi. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. La sensibilità per il carattere differenziato, pieno di tensioni, e secondo alcuni anche di affermazioni reciprocamente incompatibili, dei libri neotestamentari, è assai recente, si può far risalire, come atteggiamento diffuso all’avvento della critica biblica di indirizzo storico-critico, dunque al XVIII secolo. Nei secoli XIX e XX l’esegesi ha mostrato con tutta la chiarezza possibile che il Nuovo Testamento documenta un vivace dibattito, anche e proprio per quanto riguarda la cristologia. E’ però altrettanto evidente che i testi, nella loro diversità, intendono annunciare la centralità di Gesù, visto come rivelazione salvifica di Dio. Se si prescinde da casi particolari, come l’epistola di Giacomo, che qui non possono essere discussi, è chiaro che la cristologia costituisce il perno intorno al quale si articola l’esposizione.
Semplificando al massimo, possiamo individuare due strutture cristologiche fondamentali, comunemente dette, «dal basso» e, rispettivamente, «dall’alto». La prima prospettiva parte dall’uomo Gesù e dalla sua vicenda e afferma che, con la resurrezione, quest’uomo acquisisce il particolare significato che la fede cristiana gli attribuisce, in base al quale l’identità di Dio può essere pensata solo a partire dalla sua storia. Un esempio particolarmente chiaro di questo schema si trova in Rom. 1,4, laddove si afferma che Gesù è stato «dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti». L’uomo Gesù, cioè, riceve la sua dignità, qui espressa mediante il titolo di «Figlio di Dio» nell’evento della risurrezione. La prospettiva «dall’alto», per contro, mette al centro l’idea del farsi uomo di quella che, per ora, chiameremo un’entità di carattere divino. L’esempio certamente più noto è nel prologo di Giovanni, dove si dice che il Logos, che era «presso Dio» e, anzi, «era Dio», «si è fatto carne» (1,14). Una realtà divina, dunque, discende dal cielo, si «incarna» qualunque cosa ciò voglia dire. Le due prospettive, dal punto di vista logico, non necessariamente si escludono, ma certamente sono diverse. E’ qui necessario, sia pure solo per inciso, contestare un pregiudizio abbastanza diffuso nella letteratura divulgativa, ma stranamente non solo in essa: quello in base al quale la cristologia «dall’alto» sarebbe storicamente più antica, mentre l’altra rappresenterebbe uno sviluppo tardivo. Basti notare, al riguardo, che un testo come Fil 2, 6-11, che mette in opera uno schema «dall’alto», è unanimemente riconosciuto dagli studiosi come prepaolino, il che significa molto antico. La tesi che considera la cristologia «dall’alto» una sorta di amplificazione, magari mitologica, della più sobria prospettiva dal basso è, già sul piano della critica storica, problematica. Ai fini che qui ci interessano, è importante sottolineare che fin dagli strati più antichi delle tradizioni neotestamentarie si riscontrano entrambi gli approcci. Si tratta di due anime costanti della riflessione cristologica della chiesa. Nell’epoca patristica i poli sono costituiti dal modello alessandrino, «dall’alto», portato a sottolineare la dimensione divina, il contributo dell’esegesi pneumatica e allegorica, e da quello antiocheno, più concentrato sulla dimensione storica dell’evento di Gesù e della lettura dei testi biblici. Ma le due dinamiche percorrono anche le epoche successive e si ritrovano nella nostra. La teologia non vive in primo luogo di sintesi, le quali sono inevitabilmente statiche, ma di campi di tensione entro i quali si articola l’annuncio.

Nicea
Nel II e nella prima parte del III secolo la battaglia contro la gnosi spinge a sottolineare il tema dell’umanità di Gesù, in termini che si pongono, in stretta continuità, anche terminologica, con la problematica già presente nel Nuovo Testamento, ad esempio nella letteratura giovannea (1Gv. 4,2; 2Gv 7). Gesù di Nazareth è un vero uomo storico, che è realmente nato, vissuto e morto. La sua esistenza storica non può essere intesa come semplice rivestimento di un dio che si rende visibile sulla terra senza realmente entrare nella vicenda umana. Fin dall’inizio la fede cristiana rifiuta il «docetismo» (da dokein, sembrare, apparire), l’idea cioè in base alla quale l’umanità di Gesù è pura apparenza. Il significato attribuito dalla fede alla concretezza storica di Gesù impedisce che essa venga compresa nei termini di un semplice punto di partenza della riflessione o dell’esperienza religiosa, dal quale sarebbe possibile, come da un trampolino, lanciarsi verso le alte vette della comunione col divino. Al contrario, la fede è determinata, in ogni sua articolazione, dalla storia di quell’uomo. Tale storia è anche la chiave di volta per comprendere l’Antico Testamento e, viceversa, senza l’Antico Testamento essa non può essere rettamente intesa: questa è la posta in gioco nel dibattito con Marcione e i suoi seguaci. Per contro, i primi teologi cristiani non sviluppano una terminologia tecnicamente elaborata e costante per parlare dell’incarnazione. Possiamo cogliere già qui un elemento importante che caratterizza tutto lo sviluppo della dottrina ecclesiale: le definizioni dogmatiche non nascono dall’esigenza di sistematizzare la fede, ma sono una reazione a precise contestazioni, avvertite come pericolose. Il dogma intende in primo luogo escludere possibilità interpretative riconosciute come aberranti e solo l’urgenza del pericolo determina la definizione dogmatica.
Naturalmente si trovano, negli scritti dei padri di questo primo periodo, elementi importanti che poi contribuiranno a plasmare la fede che i concili sanciranno come ortodossa, ma non è difficile mostrare che si tratta di un processo lungo e per nulla lineare. E’ indubbio, ad esempio, che quando Giustino martire afferma (Ia Apol., 13) che i cristiani pongono il Figlio «al secondo posto», dopo Dio Padre, e lo Spirito al terzo, egli adotta un linguaggio che i concili rispettivamente di Nicea e di Costantinopoli non faranno proprio e che, anzi, è semmai più vicino a quella che sarà la tesi di Ario e dei suoi discepoli. D’altra parte, non sarebbe pertinente considerare Giustino un precursore dell’arianesimo o dei negatori della piena divinità dello Spirito santo: semplicemente, egli non si pone il problema nei termini che caratterizzeranno il dibattito successivo. Proprio Giustino, però, è un eccellente testimone del precoce tentativo svolto dal pensiero cristiano di dialogare con la tradizione filosofica di matrice ellenica, in particolare di derivazione platonica e stoica, assumendone criticamente alcune categorie ai fini di esprimere il contenuto della fede. Tali elementi si possono trovare, a un livello di approfondimento qualitativamente assai più elevato, in Origene. Egli mette bene in chiaro che il Logos è una sostanza divina, ma non sfugge all’esigenza di subordinarlo, in qualche modo, al Padre. Il dibattito cristologico si precisa nella seconda metà del III secolo. Il vescovo di Antiochia, Paolo di Samosata, riferisce l’espressione «Figlio di Dio» solo all’uomo Gesù, nel quale il Verbo eterno dimora. Tale posizione implica una comprensione di Dio nella quale il Verbo è più una modalità del «pensiero» del Padre che non del suo «essere». Tale visione, per così dire, «unitariana», non articolata nel senso che poi sarà quello della teologia trinitaria matura, è abbastanza evidentemente simmetrica alla concezione filosofica greca che intende salvaguardare l’assoluta trascendenza di Dio rispetto all’umano. Tale è anche l’intenzione fondamentale di Ario. Costui è un presbitero attivo ad Alessandria, ma di formazione antiochena, discepolo di Luciano. Egli sostiene che «il Figlio di Dio è creato dal nulla, ci fu un tempo in cui egli non era, è in grado di accogliere il male e il bene secondo il libero arbitrio ed è prodotto e creatura». Ario non vuol dire che Gesù sia «soltanto» un essere umano. Egli è l’incarnazione del Logos, ma quest’ultimo appartiene all’ambito delle creature e non può essere in alcun modo identificato col Dio creatore. In un primo tempo il vescovo di Ario, Alessandro, non coglie fino in fondo la portata della posizione ariana e ritiene possibile dirimere la discussione all’interno della diocesi, mediante il proprio arbitrato. Egli rifiuta la tesi ariana, dichiarando che Gesù è «consustanziale» e «coeterno» al Padre. La nozione di «consustanzialità», a questo stadio della discussione, non è ancora pienamente elaborata, ma in associazione alla coeternità chiarisce bene il punto centrale: quanto accade in Gesù va attribuito a un Logos che appartiene all’ordine di Dio stesso e che dunque «è» Dio. Per rendere giustizia allo sforzo concettuale di Ario, tuttavia, occorre sottolineare almeno due fattori. In primo luogo, egli si colloca nella scia di una tradizione cristiana relativamente consolidata. Se Dio è uno, il Logos va in qualche modo distinto da lui; e se è trascendente, non può, egli stesso, entrare direttamente nella storia. In secondo luogo, Ario ritiene di avere a disposizione gli strumenti filosofici che gli consentono di risolvere il dilemma in modo coerente e concettualmente nitido. Al Logos è attribuito uno status intermedio tra l’unico Dio e il mondo. In tal modo si ritiene di salvaguardare nel modo più completo: a) l’unicità di Dio; b) la sua trascendenza assoluta; c) la differenza qualitativa tra il Logos e il resto della creazione: come creatura originaria, il Logos resta origine del mondo e lo trascende, senza per questo intaccare in alcun modo l’unicità di Dio e la sua superiorità assoluta. Questo schema tripartito, Dio – Logos – mondo deriva in ultima analisi da Platone, in particolare Timeo 27a-52b, ma in Ario esso trova il parallelo più diretto nel platonismo di mezzo, così com’è espresso soprattutto da Albino e da Numenio. Nella stessa direzione, tuttavia, si muovono anche il giudaismo ellenistico e il Corpus Hermeticum, oltre, come s’è detto, a testimoni importanti del pensiero cristiano. Il presbitero di Alessandria ritiene dunque di collocarsi su di un solido terreno «teologia negativa», rispettosa dell’alterità e inconoscibilità di Dio; le categorie filosofiche alle quali egli si affida, inoltre, determinano un’alternativa ineludibile tra la difesa dell’unicità di Dio e affermazione della piena divinità del Logos. Indubbiamente la sua soluzione appare altamente plausibile dal punto di vista sistematico.
La reazione antiariana è determinata dalla convinzione che sia in gioco qualcosa di più importante della nitidezza dei concetti. Si tratta di stabilire se in Gesù è presente Dio stesso o qualcun altro, non importa quanto eccellente nella gerarchia dell’essere. Se il rapporto tra Dio Padre e Logos viene interpretato all’interno dello schema Creatore-creatura, per quanto dilatato in chiave medioplatonica con l’introduzione di una entità mediatrice, il Dio biblico viene catapultato in una trascendenza che non è quella attestata dalla testimonianza di Israele e degli apostoli: questa, i sostanza, la posizione degli avversari di Ario. In questa luce, poi, anche il monoteismo ariano si rivela più problematico di quanto appaia a prima vista: inevitabilmente, infatti, il Logos appare come un «secondo dio», inferiore e creato. Quando Costantino convoca il concilio di Nicea, dopo che la controversia esplode, egli non ha sentore della profondità della crisi e ritiene che si possa trattarla come si farebbe con una disputa interna a una scuola filosofica. Non è questa l’opinione del concilio, che assume una posizione radicale, come radicale era stata la proposta ariana. Nicea dichiara Gesù Cristo
«generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto, della consustanziale (omoousios) del Padre, per mezzo del quale tutte le cose furono originate, quello del cielo e quelle della terra».

Il concilio ritiene che non sia possibile alcuna mediazione nei confronti dell’arianesimo. Dichiarando Gesù Cristo «consustanziale» al Padre esso sceglie la strada diametralmente opposta: l’affermazione della radicale comunione ontologica di Gesù col Padre prevale sulle ragioni di chiarezza teoretica sottese alla posizione di Ario. Con ciò la chiesa sceglie, nientemeno, di modificare in profondità l’idea di monoteismo. La testimonianza biblica relativa a Gesù impone di introdurre la dimensione della differenziazione nell’unità di Dio. E’ evidente che, risolvendo un problema, se ne apre in tal modo un altro, quello di calibrare il rapporto di differenziazione nell’unità, problema che caratterizza in un certo senso fino a oggi i diversi approcci alla teologia trinitaria. Il concilio, tuttavia, ritiene che, una volta posta la questione nei termini di Ario, tale scelta sia non solo legittima, ma biblicamente necessaria. L’orizzonte decisivo entro il quale la questione viene considerata è in primo luogo attinente alla problematica della salvezza (è, cioè, «soteriologico»): se quanto accade in Gesù non coinvolge nel modo più diretto la realtà stessa di Dio, allora non è realmente Dio ad agire in Cristo, con il che il messaggio neotestamentario è svuotato esattamente nel suo centro.
Già nel corso del concilio si è fatto notare che la parola chiave della teologia nicena, homoousios, non è biblica. Ci troveremmo quindi di fronte a un’ellezizzazione in chiave sostanzialista e filosofica delle categorie storiche e relazionali caratteristiche del messaggio biblico. La ricerca ha mostrato che una simile affermazione deve essere, come minimo, precisata. Dal punto di vista dei contenuti, Nicea rompe con il quadro concettuale filosofico caratteristico del tempo, rinunciando precisamente all’introduzione di un piano dell’essere (livello «ontologico») intermedio tra Dio e la creazione e collocando con decisione il Logos, e dunque Gesù, sul piano di Dio. Correlativamente, si rinuncia anche all’adozione acritica dell’idea consolidata di monoteismo: certamente Dio è uno, ma in quest’Uno deve essere pensata la differenza. Come farlo è certamente una questione aperta, ma la sua innegabile difficoltà deve essere accettata, quando è in gioco la sostanza dell’evangelo. Da questo punto di vista ha ragione chi, come F. Ricken e A. Grillmeier, parla di una radicale de-ellenizzazione del messaggio. E’ Ario ad essere condizionato da presupposti filosofici e dalla cultura del mondo ambiente. Il concilio fa prevalere le conseguenze del messaggio biblico, accettando un paradosso concettuale di non semplice soluzione. Ciò che conta in ultima analisi non è la compatibilità di principio della teologia con il quadro concettuale del tempo, bensì la sua fedeltà alla testimonianza biblica. Il compito di affinare ulteriormente le categorie in modo da presentare con precisione i termini del paradosso può e deve essere affrontato in un secondo tempo. La prima esigenza è quella di rendere testimonianza all’evento di Dio in Gesù Cristo.
Per altro verso, è indubbio che le categorie utilizzate sono di carattere filosofico. Il linguaggio, dunque, subisce un’effettiva flessione in senso greco, teoretico e sostanzialista. Su questo punto, occorre fare due osservazioni. La prima è che tale fenomeno non è una caratteristica della posizione conciliare soltanto, ma di tutti i partecipanti alla discussione; la seconda è che si tratta di una dinamica assolutamente normale e ben radicata nella storia del pensiero cristiano dei primi secoli, dato che la fede è interrogata nei termini che costituiscono il linguaggio di una determinata epoca. Ritorneremo su questi elementi nelle conclusioni. Sin d’ora, tuttavia, è importante rilevare che un corretto ascolto della posizione conciliare non consiste nella sacralizzazione di un determinato apparato concettuale. Anche l’homoousios niceno è un’interpretazione della Scrittura, non viceversa. Prima che in un concetto teologico particolare, per quanto importante e in un certo senso irrinunciabile, il contributo teologico del concilio va colto nella sua reazione alla pressione ideologica della cultura del tempo, cioè nella sua capacità di cogliere e difendere una dimensione decisiva della rivelazione, impossibile da rinchiudere nell’apparato categoriale accettato da Ario. Le categorie filosofiche ci sono, è inevitabile e anche giusto che sia così; ma sono al servizio della fede biblica, mentre in Ario permette loro di piegare tale fede fino a farla aderire a uno schema concettuale precostituito.
Notiamo, per inciso, che un discorso analogo è stato svolto, a partire dagli studi di E. Peterson, anche per quanto riguarda l’aspetto politico della teologia trinitaria ortodossa, che trova nel dogma niceno il suo fulcro decisivo. Peterson ha mostrato come il rigido monoteismo ariano sia di fatto organico a una concezione politica monarchica e piramidale; al contrario, la prospettiva comunionale di un’unità differenziata in Dio, che la chiesa svilupperà lungo le linee indicate a Nicea, desacralizza, almeno oggettivamente, l’ideologia imperiale, aprendo la strada a prospettive politiche (ma anche ecclesiologiche) meno verticistiche e più partecipative. Si tratta di spunti che, sulla scia soprattutto di J. Moltmann, la teologia sistematica recente ha largamente valorizzato.
Si attribuisce a Nicea, e in generale alla cristologia della chiesa antica, anche una forte attenuazione della carica escatologica del messaggio biblico, a volte definita dalla parola, in verità orrenda, «de-escatologizzazione». L’irruzione di categorie filosofiche e sostanzialiste avrebbe depotenziato la comprensione della storia come tesa verso il ritorno del Cristo. Anche in questo caso c’è qualcosa di vero. Va però anzitutto rilevato che il processo di ripensamento dell’escatologia cristiana primitiva inizia, con ogni evidenza, nello stesso Nuovo Testamento. Lo si può avvertire senza difficoltà già nel pensiero di Paolo, anche mi appare più che dubbio che esso vi assuma il significato traumatico che gli viene a volte attribuito dall’esegesi. Tale processo prosegue senza enormi rotture fino a Costantino: nel II secolo, ad opera soprattutto di Ireneo, la teologia approfondisce il messaggio giovanneo e sviluppa in profondità il tema dell’incarnazione (e non solo della risurrezione) come inaugurazione del tempo finale e dunque inizio della realizzazione dell’escatologia. La svolta costantiniana svolge una funzione importante in questo quadro: la fine delle persecuzioni viene interpretata come una nuova fase. La prospettiva di un «tempo della chiesa» come momento dell’escatologia (anch’essa ben presente nel Nuovo Testamento, in particolare nell’opera lucana) assume rilevanza sempre maggiore fino a diventare egemone. In tale contesto si inserisce la storia del dogma cristologico. Il termine «deescatologizzazione» può anche essere utilizzato, ma non senza precisazioni. Non si tratta di uno smarrimento dell’escatologia, ma di una sua ridefinizione, anche se occorre riconoscere che essa finisce a tratti per sospingere la tensione verso il Regno in una prospettiva così lontana da renderla poco operante nella teologia e nella prassi. Non attribuirei però il fenomeno al dogma cristologico isolatamente considerato, ma all’insieme della vicenda storica e teologica del cristianesimo antico.
geodea
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